domenica 11 febbraio 2018

C'era una volta una strega cattiva... (prima parte)



C’era una volta, e c’è ancora oggi, nel Sud di quel Paese nordico dal clima rigido e dall’idioma incomprensibile, un bosco incantato il cui nome terrificante additava già il suo lato oscuro: la Foresta Nera (Schwarzwald, come la chiamano gli indigeni).
Questo bosco magico era abitato da creature di ogni sorta: animali selvatici, docili o pericolosi, uccelli inquietanti dai rotondi occhi arancioni, scoiattoli lesti e scaltri ladri di noccioline. Sotto il fogliame strisciavano lenti vermi grassotti e lumache senza guscio, che lasciavano dietro di sé una scia di bava brillante, mentre i ragni tessevano le loro tele danzando sulle lunghe zampe sottili. Ma gli animali non erano i soli abitanti del bosco: quando il sole andava a coricarsi dietro alla montagna e, dalla cima, la luna faceva capolino illuminando, con il suo bagliore pallido e spettrale, le cime degli alberi, anche altre creature uscivano dai loro rifugi: i satiri, sbadigliando e stiracchiandosi, si recavano alla fonte facendo scricchiolare sotto gli zoccoli delle loro zampe caprine le foglie secche dell’autunno. I folletti iniziavano le loro corse a perdifiato intorno agli alberi, scansando con passo agile e leggero le radici che gli alberi improvvisamente sollevavano per far loro un dispetto. Le ninfe dai biondi e lunghi capelli intrecciavano corone di fiori e, come ogni notte, appena le creature magiche del bosco prendevano vita, da una casetta di legno situata nella parte più scura e impenetrabile della foresta, risonava una risata tetra. Tutti gli abitanti del bosco sapevano che si trattava della strega cattiva.
La strega cattiva era, appunto, la creatura più cattiva di tutta la regione. Non c’era persona che non la temesse e, dal momento che era cattiva e che tutti la chiamavano “strega cattiva”, non c’era più nessuno che si ricordasse il suo vero nome. Nessuno sapeva quanti anni avesse, ma girava voce che ne avesse almeno seicento e quaranta. Era bassa, secca secca e raggrinzita. La sua pelle era verdognola, ma odorava di mandarino. Stava tutto il tempo da sola perché non aveva né fratelli né sorelle e, dal momento che tutti avevano paura di lei, non aveva neppure amici. Passava il tempo in giro per la foresta a raccogliere piante e radici per le sue pozioni magiche e inventava delle storie che raccontava a voce alta. Agli animali del bosco, soprattutto ai ragni e agli scoiattoli, piaceva molto ascoltarla, così la seguivano (mantenendo la debita di distanza, perché la sicurezza non è mai troppa quando si tratta di streghe cattive) durante le sue passeggiate fino a che lei non la smetteva di raccontare. L’unico animale a non aver paura di lei era una rana parlante, che le saltellava sempre intorno e con la quale ogni tanto la strega intratteneva lunghi discorsi. Purtroppo però parlare con lei era difficile perché la rana aveva un grande difetto: non era capace di pronunciare i sostantivi e dei verbi conosceva soltanto l’imperativo – e immaginate la difficoltà di cercare di dialogare con qualcuno che risponde soltanto con imperativi, avverbi, preposizioni e aggettivi. Ma alla strega piaceva parlare ed era contenta che qualcuno la ascoltasse, così non si lagnava mai del problema della rana ed era contenta di raccontarle le sue storie.
Alla strega cattiva non piacevano: le principesse dal sorriso smagliante, i principi in calzamaglia, i dolci alla cannella e le voci di tenore.
Alla strega cattiva piacevano: le storie in cui alla fine vincevano i cattivi, gli orchi barbuti, i draghi sputafuoco e le canzoni che gli sciamani, di tanto in tanto, intonavano intorno al fuoco.
Da qualche tempo la strega cattiva era diventata ancora più cattiva perché si era innamorata di un orco che incontrava ogni notte nei pressi della fonte, ma non riusciva a dichiararsi. Quando la strega cattiva si innamorava, ormai lo sapeva, non riusciva a mangiare e questa fame insoddisfatta la rendeva ancora più irascibile e, appunto, più cattiva.
L’orco di cui la strega si era innamorata era un cantastorie – e proprio questo era ciò che lei amava di più. Ogni giorno lui stava seduto su una roccia vicino alla fonte e cantava le sue storie circondato da ninfe che intrecciavano per lui corone di fiori. Anche la strega cattiva ascoltava le sue storie, ma nascosta, rannicchiata ora dietro il tronco di un albero, ora dietro un cespuglio. Anche quella notte la strega cattiva stava seduta ad ascoltare la voce dell’orco cantastorie, con il cuore in subbuglio e le farfalle nello stomaco. Lo guardava con gli occhi degli innamorati e lo vedeva perfetto. “Non mi vorrà mai bene” disse sospirando alla rana parlante e lei le rispose “Spera!”.
Ma la strega non credeva nella speranza e, quando l’orco terminò di cantare la sua storia, quatta quatta si allontanò. Non si accorse che lo sguardo dell’orco la stava cercando, non sapeva che, ogni notte, lui non faceva che aspettarla mentre cantava le sue storie. Non sapeva (ancora) che anche l’orco l’amava e, da qualche tempo, tutti i suoi pensieri erano rivolti soltanto a lei…    

venerdì 5 gennaio 2018

Callimachus said...


"Farewell, O Sun, said Cleombrotus of Ambracia and leapt from a lofty wall into Hades. No evil had he seen worthy of death, but he had read one writing of Plato’s, On the Soul".

The danger of reading Plato.

 

martedì 12 dicembre 2017

1003


Scoprire che la tanto agognata discussione della tesi di dottorato avrà luogo nell’aula 1003 – numero delle donne conquistate da Don Giovanni in Spagna sulla lista di Leporello – non ha prezzo. Non ho potuto fare a meno di sorridere quando ho letto la mail della segretaria e mi sono dovuta trattenere dal canticchiare l’aria in biblioteca. Da quel momento non riesco a liberarmi dall’Ohrwurm (parola tedesca che mi piace un sacco, che letteralmente sarebbe verme nell’orecchio, ma che in italiano è tradotto con  tormentone o motivetto nella testa – espressioni che a mio avviso non rendono così bene l’idea), così continuo a cantare tra me e me (e quando non mi trovo in un luogo pubblico anche a mezza voce): ma in Ispagna son già mille e tre – turutututuru – mille e tre.
Mozart mi ammazzerebbe – e avrebbe pure ragione.


 
Dr. to be: countdown.

lunedì 4 dicembre 2017

E Rosina poverina… (seconda parte)


“Amore e fede eterna” augurava il coro alla coppia appena unita in matrimonio, Rosina e il Conte di Almaviva (alias Lindoro). Finalmente ha ottenuto, Lindoro, l’oggetto della sua brama, la musa che ispirava il suo amore. Il coro lo rassicura: ormai nulla potrà separarli. “Questo nodo non si scioglie, sempre a lei ti stringerà”, gli cantano. Che detto così potrebbe anche sembrare una minaccia, ma è la minaccia più dolce per due innamorati. 


Come si dice? Ah già: le ultime parole famose. 
 
Il seguito della storia di Rosina e il Conte di Almaviva è messa in scena da Mozart con Le nozze di Figaro – che, si è detto, è stata composta prima del Barbiere di Rossini. Così oggi farò un salto indietro e passerò da Rossini a Mozart.
Nelle Nozze il Conte è lontano dall’essere quel fervente innamorato di Rosina che era stato quando era Lindoro. Adesso che sono sposati sembra che gli sia venuta a noia sia la moglie che la fedeltà coniugale e, da uomo potente e piacente quale è, decide di esercitare il diritto feudale e soddisfare le sue voglie con le altre donne della sua contea. Arrogante e pieno di sé, si direbbe che l’unica qualità dell’ex Lindoro sia quella di non essere più un tenore, bensì un basso-baritono.
Nell’opera accade spesso che i “cattivi” siano bassi, mentre i “buoni” tenori. Tutti i personaggi giovani, belli e innamorati, da Tamino della Zauberflöte a Lindoro dell’Italiana in Algeri, sono tenori, mentre i “cattivi”, come Osmin dell’Entführung aus dem Serail, il Commendatore del Don Giovanni, Don Alfonso di Così fan tutte, sono bassi. Certo, ci sono delle eccezioni come il saggio Zarastro, basso profondo della Zauberflöte. E ci si potrebbe (e dovrebbe) chiedere che cosa si debba considerare buono e che cosa cattivo – ma in linea generale la regola è questa.
Tornando al Conte. Sarà perché nelle Nozze è, appunto, un basso, sarà perché sono un po’ innamorata di Rod Gilfry e della sua interpretazione del Conte di Almaviva, fatto sta che l’arrogante ed egoista signore aristocratico mi è assai più simpatico dell’ingenuo Lindoro. Il suo carattere è più complesso e meno scontato. È un uomo, mi sembra, in cerca di sé. Non sa dove stia il bene e dove stia il male. Va a caccia di quello che gli dà piacere e gioia, come una falena della luce, e si arrabbia con tutto quello che, dal suo punto di vista, lo ferisce o lo offende. Per questo è incoerente: non si fa problemi a trascorrere “certe mezz’ore” con le altre donne del castello, ma è geloso marcio di Rosina e non sopporta l’idea che anche lei possa tradirlo. Mi è simpatico perché è umano, non è uno stereotipo che si innamora di un ritratto. Mi è simpatico perché alla fine riesce a venire a capo di tutti i suoi guai (che si è più o meno autoinflitto), capisce di aver sbagliato e chiede perdono. E cambia.
Ma andiamo con ordine. L’opera si apre con la famosa scena in cui Figaro, che qui è il servitore del Conte di Almaviva, prende le misure della camera che il suo padrone ha assegnato a lui e alla sua promessa sposa Susanna, cameriera della Contessa, per collocarvi il loro talamo. Susanna però è agitata e alle sempre più pressanti domande di Figaro confessa che il Conte si è preso per lei una bella scuffia e che, in cambio della dote di nozze, pretende di esercitare su di lei il diritto feudale. In altre parole: vuole portarsela a letto. Figaro, offeso, promette di fargliela pagare.
La trama dell’opera è molto più articolata di quella del Barbiere. Tutti i personaggi sono pieni e vivi, ognuno con i suoi intrighi e i suoi garbugli. Qui adesso vi racconto soltanto del Conte e di Rosina.
Rosina viene a sapere dalla stessa Susanna che il Conte non le è fedele. Lei però lo sospettava. Già da tempo non era felice della condotta del suo “moderno marito”, al tempo fedifrago e geloso. Dove sono andati i bei momenti? Che fine hanno fatto tutte le promesse e i giuramenti pronunciati da quelle labbra menzognere – che, nonostante ciò, lei ancora ama?  
Come farlo redimere? Rosina, riaccesa dall’antico fuoco di rivalsa, decise di tendergli un tranello insieme a Susanna. Quest’ultima gli dovrà far credere di cedere alle sue lusinghe e quindi di accettare di concedersi a lui.

Tra un sì e un no, un no e un sì, il Conte (qui Rod Gilfry) cerca di acciuffare la cameriera per accelerare i tempi e giubila al pensiero di farla sua, mentre Susanna si scosta e si scusa con tutti quelli che amano perché è costretta a mentire. Qualche scena più in là i due si accordano, grazie a un bigliettino, di trovarsi con il favore della notte in giardino e consolare lì le loro voglie.
Tutto è così disposto. Il Conte, convinto di avere un appuntamento hot con la tanto desiderata cameriera, all’ora stabilita si reca al luogo dell’incontro. Nel frattempo, però, Susanna e Rosina, per trarlo in inganno, si sono scambiate i vestiti e quella che, nella semioscurità, il Conte bacia avidamente non è Susanna, ma la sua stessa consorte che veste i panni della cameriera.

Il Conte però non riconosce le stranote mani e si meraviglia di quanto siano morbide le dita che crede sconosciute. Si eccita: il calore del corpo di una donna “nuova” riaccende tutto il suo ardore. Mi chiedo sempre come diamine faccia a non riconoscerla. Se non la forma delle mani, ma almeno l’odore della pelle, la voce… Le cose sono due: o è un marito molto distratto, o il testosterone gli ha dato completamente alla testa, obnubilandogli tutti i sensi. Chissà. La conclusione sembrerebbe essere che basta abbassare le luci e indossare gli abiti di un’altra persona per ravvivare il fuoco della passione di una vecchia coppia – ma non vogliamo essere così prosaici. Un rumore interrompe quello che ancora non si è consumato e i due amanti si separano per paura di essere scoperti.  

Chissà cosa avrà pensato Rosina vedendo l’amato consorte fare una corte sfrenata a quella che lui credeva essere Susanna. Chissà se avrà avuto dei rimpianti, se si sarà chiesta come sarebbe stata la sua vita se non si fosse lasciata ammaliare da Lindoro. Chissà se ha mai ripensato a Bartolo e al suo amore incondizionato per lei.
Nelle Nozze Bartolo sembra essersi in qualche modo consolato dalla “rottura” con Rosina. Dopo aver scoperto che Figaro è nientemeno che il figlio che lui, anni addietro, aveva concepito con Marcellina – la quale, prima di questa scoperta, aspirava a diventare la moglie di Figaro (allarme incesto) – decide (più o meno liberamente) di sposare quest’ultima. Se lui sarà davvero contento insieme a questa donna petulante non lo so, però troppo insoddisfatto non sembra. 
    

Ma torniamo ai nostri amanti in giardino. Li abbiano lasciati che si erano appena divisi perché avevano sentito un rumore. Il Conte spia dal suo nascondiglio chi gli aveva rotto le uova nel paniere e vede Figaro intento ad amoreggiare con – sua moglie Rosina. O almeno quella che lui pensa essere sua moglie. Si tratta invece di Susanna travestita da Rosina che mette in scena l’ultimo atto del piano escogitato con quest’ultima per dare una lezione al marito. Il Conte ci casca con tutte le scarpe e, pazzo di gelosia, corre come una furia verso la fedifraga coppia, la quale si nasconde in un antro. Pensando di cogliere in fallo Rosina, il Conte chiama i suoi uomini al suono di “Gente, gente! All’armi, all’armi!”. La gente si raduna e il Conte, pensando di esporre la coppia rea alla pubblica umiliazione, li strattona fuori dal loro nascondiglio.
Figaro e Susanna (sotto le spoglie della Contessa) chiedono perdono all’unisono, ma il Conte è irremovibile. “No, no, non sperarlo!”, continua a ripetere. L’offesa è troppo grave, l’onta con cui la moglie lo ha macchiato non può essere lavata con parole di perdono. Le rimprovera un tradimento che lui stesso era in procinto di compiere – se non fosse stato interrotto, appunto, da loro. Improvvisamente una voce proveniente dal fondo del palco fa ammutolire tutti. La Contessa, quella vera, compare quasi dal nulla come un fantasma. “Almeno io per loro perdono otterrò”, canta.
Il Conte la guarda e, dopo qualche lungo secondo di silenzio, si inginocchia e intona uno dei canti più commuoventi che io abbia sentito mai, con le sole parole: “Contessa, perdono”. 

Mi piace pensare che il Conte, quando vede comparire Rosina, si redima davvero. Mi piace pensarlo perché questo Andante fa vibrare tutte le corde del mio cuore e a mala pena, quando lo ascolto, riesco a trattenere le lacrime. Mi piace sognare che anche nella vita vera gli errori, le azioni che feriscono, si possano risolvere così. Con il perdono.
La Contessa accetta le scuse del Conte, lui le bacia la mano sotto lo sguardo commosso di tutti e il coro conclude: “Ah, tutti contenti saremo così”. Tutti contenti, come nelle favole.
Poi Allegro assai. Archi, flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe e timpani per il gran finale.
Questo giorno di tormenti,
di capricci e di follia,
in contenti e in allegria
solo Amor può terminar.
Sposi, amici, al ballo! Al gioco!
Alle mine date fuoco,
ed al suon di lieta marcia
corriam tutti a festeggiar!
 Anche Le nozze di Figaro si concludono, come il Barbiere, con uno sposalizio – addirittura doppio: quello di Susanna e Figaro e quello di Bartolo e Marcellina. Se Susanna sarà contenta, se rimpiangerà di non aver davvero ceduto alle lusinghe del Conte o di non avere scelto uno sposo più giovane e fervente come Cherubino (evidentemente i toy-boys erano in voga già allora) non ci è dato saperlo. Ma anche nelle favole questo non lo dicono – e tutte si concludono con un happy end.

martedì 28 novembre 2017

E Rosina poverina… (prima parte)


Sebbene siano state composte da due persone diverse, in due momenti diversi, il Barbiere di Siviglia di Rossini e Le nozze di Figaro di Mozart rappresentano due frammenti della stessa storia. Il Barbiere, la cui prima esecuzione è datata 1816, costituisce l’antecedente di quello che si svolge nel libretto di Da Ponte, messo in scena da Mozart nel 1786. Quando l’ho realizzato mi sono stupita. All’inizio pensavo fosse un caso che il protagonista delle due opere si chiamasse Figaro: concentrandomi più sulla musica che sulla storia non mi ero resa conto che anche gli altri personaggi fossero gli stessi. A giustificare la mia sbadataggine depone il fatto che i nomi e le funzioni dei protagonisti dell’una e dell’altra opera erano cambiati: nell’opera di Rossini, Figaro è il barbiere più in della città, nelle Nozze è presentato invece come il servitore del Conte di Almaviva. Il Conte delle Nozze si fa chiamare Lindoro nel Barbiere per essere sicuro che Rosina si innamori di lui e non dei suoi soldi o del suo titolo nobiliare. Nelle Nozze Rosina, che è già sposata con il Conte, è chiamata tutto il tempo Contessa di Almaviva. Solo una o due volte viene chiamata, di sfuggita, col suo nome, ma nella concitazione dei duetti e dei terzetti non è la prima cosa che salta all’occhio – o all’orecchio. Il dottor Bartolo, tutore autorevole ma goffo di Rosina nel Barbiere, nelle Nozze è solo una macchietta che, alla fine della fiera, si rivela essere il padre di Figaro e sposa la “vecchia” Marcellina, sua fiamma di gioventù. Nelle Nozze, poi, ci sono personaggi che nel Barbiere non compaiono: Susanna, la promessa sposa di Figaro, il paggio Cherubino e Barbarina – per citarne qualcuno. Sbadataggine la mia, ma parzialmente giustificata.
Rosina è un personaggio che mi piace e al quale mi sento molto vicina. Se non fosse che in tedesco il suo nome suona come Rosinen, ovvero uva passa, che trovo disgustosa, avrei quasi voluto chiamarmi così (per inciso: il mio nome, in inglese, suona come succoso, che tanto meglio non è). Rosina è testarda, cocciuta, impertinente (frech), finta arrendevole, ma allo stesso tempo sognatrice e un po’ ingenua – quadro che dipinge lei stessa nell’aria Una voce poco fa del Barbiere che posto qui nell’interpretazione della Callas, la mia preferita. “Io sono docile” dice “son rispettosa, sono obbediente, dolce e amorosa. Mi lascio reggere, mi fo guidar”. L’immagine della fanciulla sottomessa, che si rimette alla volontà dell’uomo, padre-padrone? Sembra di sì, ma… Ma Rosina continua (e il ma della Callas in quest’aria, al minuto 4:04, riflette tutta la Frechheit del personaggio): “Ma se mi toccano qua nel mio debole, sarò una vipera. E cento trappole, prima di cedere, farò giocar”.   

Che cosa succede? La storia ve la racconto seguendo la cronologia della narrazione e non l’ordine cronologico con cui le due opere sono state composte.
Nel Barbiere il Conte di Almaviva si innamora di Rosina, giovane pupilla del dottor Bartolo. Per conquistarla ricorre all’aiuto dello scaltro Figaro, il factotum della città – come lui stesso si definisce. Insieme a lui il Conte, che da questo momento in poi si farà chiamare Lindoro, elabora una serie di stratagemmi per riuscire a introdursi in casa del dottor Bartolo, dichiararsi all’amata e andare via insieme come marito e moglie. Le escogitano tutte: prima si traveste da soldato ubriaco, poi da insegnante di musica, sostituto di don Basilio. 

Sembra proprio innamorato pazzo. Malauguratamente per lui però anche Bartolo è innamorato della sua pupilla e già da tempo progetta di sposarla.
Il dottor Bartolo, a discapito dell’antipatia che Rosina prova nei suoi confronti, a me risulta simpatico e quasi quasi ho fatto il tifo per lui e non per Lindoro. Forse perché lui è un basso – e il mio debole per i bassi non è un mistero –, mentre Lindoro è un tenore. E dei tenori non mi fido. Forse perché il suo amore per Rosina si basa su una profonda conoscenza reciproca e non sul fascino dell’aspetto fisico di lei. Bartolo ama Rosina con tutti i suoi difetti. L’amerà Lindoro allo stesso modo, quando al mattino la vedrà spettinata e senza trucco? Riuscirà a tenere testa a quel caratterino? La risposta la dà Mozart nelle Nozze di Figaro, ma di questo parlerò dopo.
Il dottor Bartolo è un tenerone e per conquistare la simpatia della sua pupilla non si vergogna a rendersi ridicolo:

Questo però non significa che si faccia prendere in giro facilmente. Quando sospetta che la sua amata e Figaro stanno tramando qualcosa alle sue spalle fa valere la sua autorità – o almeno ci prova…
  
Un dottor della sua sorte non si lascia infinocchiar? Forse, ma Rosina è cocciuta. Adesso si è fissata che vuole scappare con l’affascinante Lindoro e chi può toglierle di testa quest’idea? Lei è giovane, Lindoro è bello. Anche lei si dichiara innamorata persa di un tipo che ha visto solo di sfuggita dal balcone. Un tenore per di più. Ma tant’è – vuole sentirsi libera, vuole sperimentare la vita, vuole fare come tutte le ragazze della sua età (Così fan tutte, appunto). Ne risulta il classico schema della commedia dell’arte: una coppia di innamorati, un “cattivo” che si oppone alla loro unione e un servo astuto che li aiuta ad averla vinta. Dopo tante peripezie e un immancabile equivoco finale, tipico della commedia, Rosina scopre che Lindoro è nientemeno che il Conte di Almaviva e i due riescono a sposarsi. 

 “Amore e fede eterna si vegga in voi regnar” conclude il coro, mentre il Conte e Rosina, bellissimi e raggianti, coronano il loro sogno (?) d’amore. Ma sarà davvero un “felice innesto”? Sarà contenta Rosina della sua scelta o avrà dei rimpianti? Il Conte si rivelerà essere quel giovane innamorato che le aveva fatto perdere la testa?


E il cervello poverello
già stordito sbalordito
non ragiona, si confonde,
si riduce ad impazzar.

Spoiler:


 

mercoledì 22 novembre 2017

Il sosia



Si dice che per ognuno di noi ci siano sette sosia sparsi per il mondo. Già i greci ci insegnano a non prestare fede a quello che “si dice” (λέγεταί δή), ma con quello che “si dice” anche i filosofi hanno creato miti e immagini, per gioco o per alludere a questioni più complesse. Non sono saggia, io, così con quello che si dice mi permetto solo di giocare.
Questa storia dei sette sosia, che è proprio una sciocchezza, mi è venuta in mente qualche mese fa quando, sulla strada dietro alla stazione della cittadina svizzera in cui ho studiato e vissuto, ho incontrato il sosia del mio ex.
Era già buio, ero appena uscita dall’università e stavo andando al supermercato della stazione perché tutti gli altri lì chiudevano già alle 18 (tasto dolente del mio soggiorno in svizzera) – quando ho visto delinearsi di fronte a me una figura molto familiare. Stessa età, stesso colore dei capelli, stessa corporatura e…stessa faccia. Per un attimo ho pensato davvero che fosse lui e mi è preso quasi un colpo: che cosa ci faceva lì? Sebbene l’università sia grande, la città è piccola come un paese e, per quanto carina, non ci sono attrazioni che stimolino il turismo internazionale: soltanto distese verdi e mucche, tantissime mucche. La sagoma si avvicinava e, sempre mezza convinta che fosse lui, mi domandavo che cosa gli fosse capitato: era vestito come un simil-punk-fricchettone, qualche ciocca di capelli rasta, un enorme zaino da vagabondo sulle spalle e cinque o sei sacchetti e sportine di plastica in mano. Solo quando era a pochi passi da me mi ho capito che non era lui, nonostante l’impressionante somiglianza. Devo avere avuto una strana espressione dipinta in volto perché lui, guardandomi, ha sorriso divertito. Quell’incontro è stato però molto fugace e mi sono detta che in fin dei conti la somiglianza non forse era così eclatante: c’era buio ed era probabile che mi fossi sbagliata.
L’altro ieri però sono tornata in Svizzera. Un po’ assonnata e un po’ persa nei miei pensieri mi preparavo a scendere dal treno, dopo un viaggio lunghino, cercando l’energia per mettermi al lavoro. Ero così sulle scalette, in procinto di abbandonare il vagone, e chi ho visto tra i passeggeri che, a pochi centimetri da me, aspettavano che si sgombrasse l’ingresso per salire? Il sosia. Questa volta era mattina, c’era il sole e non potevo sbagliarmi: era proprio uguale uguale. Adesso aveva tagliato via i rasta e aveva i capelli rasati da una parte, mettendo in mostra un paio di orecchini e un dilatatore per orecchie. Non ho resistito e, guardandolo, sono scoppiata a ridere. Sarò sembrata matta. Ha riso anche lui. Questo mi ha dato la conferma che si trattava di un’altra persona: l’originale sarebbe lungi dal volere condividere con me un sorriso. Ma tant’è. Il sosia mi ha dato l’impressione di aver fatto pace con una parte del mio passato.

mercoledì 15 novembre 2017

Quando il cielo è blu, prendi il cappotto!


In Germania una giornata di metà novembre con sole e cielo terso può significare solo una cosa: l’inverno è alle porte. L’ho imparato a mie spese la prima volta che sono andata a Berlino. Era fine dicembre di qualche anno fa, avevo trascorso le vacanze di Natale con la mia famiglia in Sicilia e avevo prenotato un volo diretto Catania-Berlino. Finalmente avrei visitato la capitale! Quell’inverno mediterraneo era particolarmente mite: nel mio paese dell’entroterra c’erano 15 gradi, a Palermo – dove vado ogni volta che posso perché è la città italiana in cui più mi sento a casa – 18 circa. Io avevo lasciato una Germania freddina, ma non freddissima, e facevo la sborona andando in giro senza cappotto davanti agli occhi allibiti di parenti e amici per i quali ero ormai diventata una tedesca a tutti gli effetti.
Il giorno della partenza sono andata all’aeroporto vestita a strati in previsione della Germania. Immaginavo che a Berlino ci sarebbe stato più freddo – non ero ingenua fino a questo punto. Sono arrivata che era già buio, tirava vento e pioveva. Ero però così eccitata di essere finalmente arrivata che sul momento non ho badato molto al tempo. Ho cenato e sono andata a dormire.
Sono stata svegliata, il giorno dopo, da un raggio di sole che filtrava allegro attraverso i vetri un po’ sporchi della mia camera. Mi sono alzata un po’ intontita, ho guardato fuori e non potevo credere ai miei occhi: un cielo azzurro e limpido così non c’era nemmeno in Sicilia – mi sono detta. Quale tempo migliore per la mia prima spedizione in città? Sono scesa di sotto, ho fatto una colazione frugale, mi sono lavata e preparata per uscire. Incoraggiata dal sole ho indossato (lo ricordo come se fosse successo stamani): un paio di collant pesanti, ma non di lana, una gonna di jeans, una maglia di misto acrilico con su una giacchetta senza ambizioni e un giubbino rosso imbottito ma corto. Niente guanti. Niente cappello. Stavo per lasciare la casa quando lei mi dice “Sei sicura di volere uscire così? Fa molto freddo oggi”. Le rivolgo un sorriso sghembo mentre penso: “Esagerata! Questi tedeschi pensano che solo perché vengo dal sud dell’Europa non sono in grado di sopportare il freddo teutonico. Vivo già da qualche annetto in Germania, non è il mio primo inverno qui”. Più per accontentarla che per tranquillizzarla porto con me anche una sciarpa. Appena fatto qualche passo sul vialetto davanti casa mi sono subito pentita del mio outfit, ma un po’ per orgoglio e un po’ perché avevo paura di perdere l’autobus mi sono decisa di non tornare a cambiarmi. Non credo di avere mai sentito freddo come quella giornata a Berlino: il gelo arrivava fino alle ossa, non avevo più la sensibilità nei piedi, che mi facevano male, non potevo tirare fuori le mani dalle tasche (e infatti ho fatto pochissime foto), ogni mio respiro produceva una nuvoletta di fumo, le orecchie erano diventate due ghiaccioli. Correvo da un museo a un bar e da un bar a un museo e quando finalmente la sera sono arrivata al teatro dell’opera mi sono lasciata cullare dal tepore della sala al punto che ho rischiato un paio di volte di addormentarmi – cosa che non mi succede mai quando ascolto l’opera. Non che non ci fossero e non ci sarebbero state giornate fredde nella mia vita (mi sono rotolata su metri di neve delle Alpi, ho visitato città più al nord, ci sono stati inverni più rigidi nei posti in cui ho abitato). Solo non me l’aspettavo. Il freddo mi ha presa in contropiede ingannandomi con un cielo blu e un sole gelido. Il cielo grigio, le nuvole basse e minacciose sono molto meno infidi di una giornata limpida in inverno qui.
Ho imparato così la lezione: se in Germania il cielo è terso, prendi il cappotto!