martedì 28 novembre 2017

E Rosina poverina… (prima parte)


Sebbene siano state composte da due persone diverse, in due momenti diversi, il Barbiere di Siviglia di Rossini e Le nozze di Figaro di Mozart rappresentano due frammenti della stessa storia. Il Barbiere, la cui prima esecuzione è datata 1816, costituisce l’antecedente di quello che si svolge nel libretto di Da Ponte, messo in scena da Mozart nel 1786. Quando l’ho realizzato mi sono stupita. All’inizio pensavo fosse un caso che il protagonista delle due opere si chiamasse Figaro: concentrandomi più sulla musica che sulla storia non mi ero resa conto che anche gli altri personaggi fossero gli stessi. A giustificare la mia sbadataggine depone il fatto che i nomi e le funzioni dei protagonisti dell’una e dell’altra opera erano cambiati: nell’opera di Rossini, Figaro è il barbiere più in della città, nelle Nozze è presentato invece come il servitore del Conte di Almaviva. Il Conte delle Nozze si fa chiamare Lindoro nel Barbiere per essere sicuro che Rosina si innamori di lui e non dei suoi soldi o del suo titolo nobiliare. Nelle Nozze Rosina, che è già sposata con il Conte, è chiamata tutto il tempo Contessa di Almaviva. Solo una o due volte viene chiamata, di sfuggita, col suo nome, ma nella concitazione dei duetti e dei terzetti non è la prima cosa che salta all’occhio – o all’orecchio. Il dottor Bartolo, tutore autorevole ma goffo di Rosina nel Barbiere, nelle Nozze è solo una macchietta che, alla fine della fiera, si rivela essere il padre di Figaro e sposa la “vecchia” Marcellina, sua fiamma di gioventù. Nelle Nozze, poi, ci sono personaggi che nel Barbiere non compaiono: Susanna, la promessa sposa di Figaro, il paggio Cherubino e Barbarina – per citarne qualcuno. Sbadataggine la mia, ma parzialmente giustificata.
Rosina è un personaggio che mi piace e al quale mi sento molto vicina. Se non fosse che in tedesco il suo nome suona come Rosinen, ovvero uva passa, che trovo disgustosa, avrei quasi voluto chiamarmi così (per inciso: il mio nome, in inglese, suona come succoso, che tanto meglio non è). Rosina è testarda, cocciuta, impertinente (frech), finta arrendevole, ma allo stesso tempo sognatrice e un po’ ingenua – quadro che dipinge lei stessa nell’aria Una voce poco fa del Barbiere che posto qui nell’interpretazione della Callas, la mia preferita. “Io sono docile” dice “son rispettosa, sono obbediente, dolce e amorosa. Mi lascio reggere, mi fo guidar”. L’immagine della fanciulla sottomessa, che si rimette alla volontà dell’uomo, padre-padrone? Sembra di sì, ma… Ma Rosina continua (e il ma della Callas in quest’aria, al minuto 4:04, riflette tutta la Frechheit del personaggio): “Ma se mi toccano qua nel mio debole, sarò una vipera. E cento trappole, prima di cedere, farò giocar”.   

Che cosa succede? La storia ve la racconto seguendo la cronologia della narrazione e non l’ordine cronologico con cui le due opere sono state composte.
Nel Barbiere il Conte di Almaviva si innamora di Rosina, giovane pupilla del dottor Bartolo. Per conquistarla ricorre all’aiuto dello scaltro Figaro, il factotum della città – come lui stesso si definisce. Insieme a lui il Conte, che da questo momento in poi si farà chiamare Lindoro, elabora una serie di stratagemmi per riuscire a introdursi in casa del dottor Bartolo, dichiararsi all’amata e andare via insieme come marito e moglie. Le escogitano tutte: prima si traveste da soldato ubriaco, poi da insegnante di musica, sostituto di don Basilio. 

Sembra proprio innamorato pazzo. Malauguratamente per lui però anche Bartolo è innamorato della sua pupilla e già da tempo progetta di sposarla.
Il dottor Bartolo, a discapito dell’antipatia che Rosina prova nei suoi confronti, a me risulta simpatico e quasi quasi ho fatto il tifo per lui e non per Lindoro. Forse perché lui è un basso – e il mio debole per i bassi non è un mistero –, mentre Lindoro è un tenore. E dei tenori non mi fido. Forse perché il suo amore per Rosina si basa su una profonda conoscenza reciproca e non sul fascino dell’aspetto fisico di lei. Bartolo ama Rosina con tutti i suoi difetti. L’amerà Lindoro allo stesso modo, quando al mattino la vedrà spettinata e senza trucco? Riuscirà a tenere testa a quel caratterino? La risposta la dà Mozart nelle Nozze di Figaro, ma di questo parlerò dopo.
Il dottor Bartolo è un tenerone e per conquistare la simpatia della sua pupilla non si vergogna a rendersi ridicolo:

Questo però non significa che si faccia prendere in giro facilmente. Quando sospetta che la sua amata e Figaro stanno tramando qualcosa alle sue spalle fa valere la sua autorità – o almeno ci prova…
  
Un dottor della sua sorte non si lascia infinocchiar? Forse, ma Rosina è cocciuta. Adesso si è fissata che vuole scappare con l’affascinante Lindoro e chi può toglierle di testa quest’idea? Lei è giovane, Lindoro è bello. Anche lei si dichiara innamorata persa di un tipo che ha visto solo di sfuggita dal balcone. Un tenore per di più. Ma tant’è – vuole sentirsi libera, vuole sperimentare la vita, vuole fare come tutte le ragazze della sua età (Così fan tutte, appunto). Ne risulta il classico schema della commedia dell’arte: una coppia di innamorati, un “cattivo” che si oppone alla loro unione e un servo astuto che li aiuta ad averla vinta. Dopo tante peripezie e un immancabile equivoco finale, tipico della commedia, Rosina scopre che Lindoro è nientemeno che il Conte di Almaviva e i due riescono a sposarsi. 

 “Amore e fede eterna si vegga in voi regnar” conclude il coro, mentre il Conte e Rosina, bellissimi e raggianti, coronano il loro sogno (?) d’amore. Ma sarà davvero un “felice innesto”? Sarà contenta Rosina della sua scelta o avrà dei rimpianti? Il Conte si rivelerà essere quel giovane innamorato che le aveva fatto perdere la testa?


E il cervello poverello
già stordito sbalordito
non ragiona, si confonde,
si riduce ad impazzar.

Spoiler:


 

mercoledì 22 novembre 2017

Il sosia



Si dice che per ognuno di noi ci siano sette sosia sparsi per il mondo. Già i greci ci insegnano a non prestare fede a quello che “si dice” (λέγεταί δή), ma con quello che “si dice” anche i filosofi hanno creato miti e immagini, per gioco o per alludere a questioni più complesse. Non sono saggia, io, così con quello che si dice mi permetto solo di giocare.
Questa storia dei sette sosia, che è proprio una sciocchezza, mi è venuta in mente qualche mese fa quando, sulla strada dietro alla stazione della cittadina svizzera in cui ho studiato e vissuto, ho incontrato il sosia del mio ex.
Era già buio, ero appena uscita dall’università e stavo andando al supermercato della stazione perché tutti gli altri lì chiudevano già alle 18 (tasto dolente del mio soggiorno in svizzera) – quando ho visto delinearsi di fronte a me una figura molto familiare. Stessa età, stesso colore dei capelli, stessa corporatura e…stessa faccia. Per un attimo ho pensato davvero che fosse lui e mi è preso quasi un colpo: che cosa ci faceva lì? Sebbene l’università sia grande, la città è piccola come un paese e, per quanto carina, non ci sono attrazioni che stimolino il turismo internazionale: soltanto distese verdi e mucche, tantissime mucche. La sagoma si avvicinava e, sempre mezza convinta che fosse lui, mi domandavo che cosa gli fosse capitato: era vestito come un simil-punk-fricchettone, qualche ciocca di capelli rasta, un enorme zaino da vagabondo sulle spalle e cinque o sei sacchetti e sportine di plastica in mano. Solo quando era a pochi passi da me mi ho capito che non era lui, nonostante l’impressionante somiglianza. Devo avere avuto una strana espressione dipinta in volto perché lui, guardandomi, ha sorriso divertito. Quell’incontro è stato però molto fugace e mi sono detta che in fin dei conti la somiglianza non forse era così eclatante: c’era buio ed era probabile che mi fossi sbagliata.
L’altro ieri però sono tornata in Svizzera. Un po’ assonnata e un po’ persa nei miei pensieri mi preparavo a scendere dal treno, dopo un viaggio lunghino, cercando l’energia per mettermi al lavoro. Ero così sulle scalette, in procinto di abbandonare il vagone, e chi ho visto tra i passeggeri che, a pochi centimetri da me, aspettavano che si sgombrasse l’ingresso per salire? Il sosia. Questa volta era mattina, c’era il sole e non potevo sbagliarmi: era proprio uguale uguale. Adesso aveva tagliato via i rasta e aveva i capelli rasati da una parte, mettendo in mostra un paio di orecchini e un dilatatore per orecchie. Non ho resistito e, guardandolo, sono scoppiata a ridere. Sarò sembrata matta. Ha riso anche lui. Questo mi ha dato la conferma che si trattava di un’altra persona: l’originale sarebbe lungi dal volere condividere con me un sorriso. Ma tant’è. Il sosia mi ha dato l’impressione di aver fatto pace con una parte del mio passato.

mercoledì 15 novembre 2017

Quando il cielo è blu, prendi il cappotto!


In Germania una giornata di metà novembre con sole e cielo terso può significare solo una cosa: l’inverno è alle porte. L’ho imparato a mie spese la prima volta che sono andata a Berlino. Era fine dicembre di qualche anno fa, avevo trascorso le vacanze di Natale con la mia famiglia in Sicilia e avevo prenotato un volo diretto Catania-Berlino. Finalmente avrei visitato la capitale! Quell’inverno mediterraneo era particolarmente mite: nel mio paese dell’entroterra c’erano 15 gradi, a Palermo – dove vado ogni volta che posso perché è la città italiana in cui più mi sento a casa – 18 circa. Io avevo lasciato una Germania freddina, ma non freddissima, e facevo la sborona andando in giro senza cappotto davanti agli occhi allibiti di parenti e amici per i quali ero ormai diventata una tedesca a tutti gli effetti.
Il giorno della partenza sono andata all’aeroporto vestita a strati in previsione della Germania. Immaginavo che a Berlino ci sarebbe stato più freddo – non ero ingenua fino a questo punto. Sono arrivata che era già buio, tirava vento e pioveva. Ero però così eccitata di essere finalmente arrivata che sul momento non ho badato molto al tempo. Ho cenato e sono andata a dormire.
Sono stata svegliata, il giorno dopo, da un raggio di sole che filtrava allegro attraverso i vetri un po’ sporchi della mia camera. Mi sono alzata un po’ intontita, ho guardato fuori e non potevo credere ai miei occhi: un cielo azzurro e limpido così non c’era nemmeno in Sicilia – mi sono detta. Quale tempo migliore per la mia prima spedizione in città? Sono scesa di sotto, ho fatto una colazione frugale, mi sono lavata e preparata per uscire. Incoraggiata dal sole ho indossato (lo ricordo come se fosse successo stamani): un paio di collant pesanti, ma non di lana, una gonna di jeans, una maglia di misto acrilico con su una giacchetta senza ambizioni e un giubbino rosso imbottito ma corto. Niente guanti. Niente cappello. Stavo per lasciare la casa quando lei mi dice “Sei sicura di volere uscire così? Fa molto freddo oggi”. Le rivolgo un sorriso sghembo mentre penso: “Esagerata! Questi tedeschi pensano che solo perché vengo dal sud dell’Europa non sono in grado di sopportare il freddo teutonico. Vivo già da qualche annetto in Germania, non è il mio primo inverno qui”. Più per accontentarla che per tranquillizzarla porto con me anche una sciarpa. Appena fatto qualche passo sul vialetto davanti casa mi sono subito pentita del mio outfit, ma un po’ per orgoglio e un po’ perché avevo paura di perdere l’autobus mi sono decisa di non tornare a cambiarmi. Non credo di avere mai sentito freddo come quella giornata a Berlino: il gelo arrivava fino alle ossa, non avevo più la sensibilità nei piedi, che mi facevano male, non potevo tirare fuori le mani dalle tasche (e infatti ho fatto pochissime foto), ogni mio respiro produceva una nuvoletta di fumo, le orecchie erano diventate due ghiaccioli. Correvo da un museo a un bar e da un bar a un museo e quando finalmente la sera sono arrivata al teatro dell’opera mi sono lasciata cullare dal tepore della sala al punto che ho rischiato un paio di volte di addormentarmi – cosa che non mi succede mai quando ascolto l’opera. Non che non ci fossero e non ci sarebbero state giornate fredde nella mia vita (mi sono rotolata su metri di neve delle Alpi, ho visitato città più al nord, ci sono stati inverni più rigidi nei posti in cui ho abitato). Solo non me l’aspettavo. Il freddo mi ha presa in contropiede ingannandomi con un cielo blu e un sole gelido. Il cielo grigio, le nuvole basse e minacciose sono molto meno infidi di una giornata limpida in inverno qui.
Ho imparato così la lezione: se in Germania il cielo è terso, prendi il cappotto!

domenica 5 novembre 2017

Di nuovo in Germania


Avrei voluto concludere il capitolo della mia “avventura andalusa” raccontandovi di Granada e della magia dell’Alhambra, ma per quanto mi sforzassi di ricostruire le immagini, gli odori e le sensazioni provate in quel luogo, non riuscivo a trasformarle in soldatini neri e ordinati sullo sfondo bianco del mio file word. Non riuscivo a far rivivere il caldo umido dell’Andalusia con i 10 gradi piovigginosi dell’autunno tedesco.
Sono tornata in Germania.
La prima cosa che ho fatto al mio ritorno è stata ammalarmi. La stanchezza di un’estate da vagabonda mi si è riversata addosso non appena oltrepassato il confine. Ho trascorso così la prima settimana vegetando sul divano con febbre e mal di gola. Da nomade tornare sedentaria – difficile il passaggio.
A partire dalla seconda settimana ho esercitato tutti i lavori possibili meno che il mio. Ho fatto la traslocatrice, l’artigiana, la tappezziera (e con quale talento!), la montatrice di mobili e la parrucchiera. Un dottorato in filosofia e due braccia sottratte alla manovalanza – ha commentato la mia migliore amica. In tutto questo ho dovuto occuparmi anche di consegne, scadenze, Anmeldungen, scartoffie e tutte quelle cose da grandes personnes che fanno male alla fantasia.
Poi finalmente ho ritrovato la concentrazione di tornare al mio lavoro, al mio libro. Una volta alla settimana, invece, per guadagnare qualcosina in più e perché mi diverte, ho ripreso a insegnare italiano presso un conosciuto istituto nella città in cui vivo.
Cerco un equilibro nuovo, mi adatto a una situazione nuova a una fase di passaggio.
La temperatura si è abbassata ancora e anche il blu del cielo preannuncia l’arrivo di un inverno al quale non mi sento preparata. Ce la farò?