Quella che, a
guardare il pastorello, sembrava una passeggiata di salute si rivela essere, per la
maggior parte di noi, una salita ardua e faticosa. Sembra che, per dispetto, la
cima si allontani man mano che noi avanziamo. Sulla via ci imbattiamo nella
carcassa di una capra. Mi vengono i brividi: avrà perso l’equilibrio mentre
camminava in bilico sui sassi, è caduta, si è fratturata una zampetta ed è
morta di fame e sete lì, perché nessuno l’ha ritrovata in tempo? E se succedesse anche a noi?
Lui cammina
davanti a me con piglio sicuro. Non sembra né preoccupato né tantomeno stanco, così mi faccio coraggio e procedo anch’io. Per raggiungere la
meta dobbiamo attraversare due punti piuttosto pericolosi (almeno dal mio punto
di vista inesperto). Lui ci precede: cammina come una capra sui sassi instabili
del primo valico. Guardo le pietre che, sotto i suoi passi, rotolano giù
sprofondando nel nulla e prego che non rotoli giù con loro anche lui.
“Che
succede se cadiamo?” chiede uno dei meno esperti.
“Tu non cadere”, risponde la
nostra guida mentre, giunta dall’altra parte del valico prepara la corda,
aggrappandoci alla quale saremmo dovuti passare anche noi.
Poco meno di due
metri, ma l’abisso sotto di me. Guardo in alto: qua e là, in piedi sulle rocce,
altre capre ci guardano con aria interrogativa, come a chiedersi: “Cosa diamine
stanno combinando questi umani imbranati?”. Una di loro bela – forse sta
deridendo la mia paura.
Aggrappandosi
alla corda passa anche il secondo, ora tocca a me. Prendo il capo della corda
che lui mi ha lanciato e me lo lego intorno alla vita con il nodo che ho
imparato durante i corsi di arrampicata. La tengo stretta con la mano sinistra,
tanto forte che mi faccio quasi male. “Stai calma” mi ripeto “un passo dopo
l’altro, non guardare sotto, non guardare sotto”. Le mani sudano, sento la
corda scivolare, gli appigli per la mano destra sembrano tutt’altro che
stabili. “Un passo dopo l’altro, non guardare sotto, non guardare sotto”,
continuo a ripetermi. Sassolini e ghiaia rotolano giù sotto i miei passi
incerti. Penso alla carcassa della capra. “Non pensare, non pensare”.
Ecco, ce l’ho
fatta! Non mi sembra vero, mai mi sono sentita così attaccata alla vita, così
contenta di esserci, in questo mondo. Il secondo valico non è così difficile.
Un’altra capra mi guarda e bela. Le sorrido – ormai mi sento un po’ capretta
anch’io.
Arriviamo in
cima, finalmente e il mio cuore esplode di gioia e di stanchezza. Eccole, le
Alpi, illuminate dal sole bruciante delle due del pomeriggio. Dall’alto domino
il loro profilo: giganti loro, gigante io. Non mi fanno più paura, non mi
tolgono più il fiato. Non vorrei scendere più. Per minuti interminabili
contemplo quei titani, respiro l’aria rarefatta dei duemilacinquecento metri di
altitudine. Mi sdraio sull’erba, mi sento grande, piena, imbattibile.
La discesa non ve
la racconto: mi sono già dilungata fin troppo e, a dire il vero, non è stata né
avventurosa né emozionante come la salita. Solo tanto male alle ginocchia e ai
talloni, vesciche dolorose e una voglia indescrivibile di vedere la fine.
Le Alpi oggi mi
hanno ricordato che sono un animale: quando sei talmente stanca che non ce la
fai più, ma devi farcela perché non
c’è altra soluzione – non puoi chiamare nessuno che possa venire a prenderti
con la macchina, non ci sono bus, ma solo capre –, quando le gambe ti fanno
male, ma non puoi fermarti perché da lì a qualche ora il sole sarà inghiottito
dai titani, il buio ruberà i contorni al mondo e il freddo ti avvolgerà, quando
non riesci nemmeno a pensare perché tutti i tuoi sensi e le tue forze non sono
rivolti all’interno, dentro di te, ma all’esterno – a valutare le possibilità e
i pericoli, a misurare i passi, a contenere gli sforzi – ti accorgi che quando
tutto ti abbandona – i crucci del lavoro e la smania di diventare, il computer, i libri, le fantasie, i pensieri e anche le
forze – quello che senti più forte è il tuo istinto di sopravvivenza.
Un animale
attaccato alla vita, io sono questo se togli tutto il resto.