Scoprire che la
tanto agognata discussione della tesi di dottorato avrà luogo nell’aula 1003 –
numero delle donne conquistate da Don Giovanni in Spagna sulla lista di
Leporello – non ha prezzo. Non ho potuto fare a meno di sorridere quando ho
letto la mail della segretaria e mi sono dovuta trattenere dal canticchiare l’aria
in biblioteca. Da quel momento non riesco a liberarmi dall’Ohrwurm (parola tedesca che mi piace un sacco, che letteralmente
sarebbe verme nell’orecchio, ma che
in italiano è tradotto con tormentone o motivetto nella testa – espressioni che a mio avviso non rendono
così bene l’idea), così continuo a cantare tra me e me (e quando non mi trovo
in un luogo pubblico anche a mezza voce): ma
in Ispagna son già mille e tre – turutututuru – mille e tre. Mozart mi
ammazzerebbe – e avrebbe pure ragione.
“Amore e fede
eterna” augurava il coro alla coppia appena unita in matrimonio, Rosina e il
Conte di Almaviva (alias Lindoro).
Finalmente ha ottenuto, Lindoro, l’oggetto della sua brama, la musa che
ispirava il suo amore. Il coro lo rassicura: ormai nulla potrà separarli.
“Questo nodo non si scioglie, sempre a lei ti stringerà”, gli cantano. Che
detto così potrebbe anche sembrare una minaccia, ma è la minaccia più dolce per
due innamorati.
Come si dice? Ah
già: le ultime parole famose.
Il seguito della storia
di Rosina e il Conte di Almaviva è messa in scena da Mozart con Le nozze di Figaro – che, si è detto, è
stata composta prima del Barbiere di
Rossini. Così oggi farò un salto indietro e passerò da Rossini a Mozart.
Nelle Nozze il Conte è lontano dall’essere
quel fervente innamorato di Rosina che era stato quando era Lindoro. Adesso che
sono sposati sembra che gli sia venuta a noia sia la moglie che la fedeltà
coniugale e, da uomo potente e piacente quale è, decide di esercitare il
diritto feudale e soddisfare le sue voglie con le altre donne della sua contea.
Arrogante e pieno di sé, si direbbe che l’unica qualità dell’ex Lindoro sia
quella di non essere più un tenore, bensì un basso-baritono.
Nell’opera accade
spesso che i “cattivi” siano bassi, mentre i “buoni” tenori. Tutti i personaggi
giovani, belli e innamorati, da Tamino della Zauberflöte a Lindoro dell’Italiana
in Algeri, sono tenori, mentre i “cattivi”, come Osmin dell’Entführung aus dem Serail, il
Commendatore del Don Giovanni, Don
Alfonso di Così fan tutte, sono
bassi. Certo, ci sono delle eccezioni come il saggio Zarastro, basso profondo
della Zauberflöte. E ci si potrebbe
(e dovrebbe) chiedere che cosa si debba considerare buono e che cosa cattivo – ma
in linea generale la regola è questa.
Tornando al
Conte. Sarà perché nelle Nozze è,
appunto, un basso, sarà perché sono un po’ innamorata di Rod Gilfry e della sua
interpretazione del Conte di Almaviva, fatto sta che l’arrogante ed egoista
signore aristocratico mi è assai più simpatico dell’ingenuo Lindoro. Il suo
carattere è più complesso e meno scontato. È un uomo, mi sembra, in cerca di
sé. Non sa dove stia il bene e dove stia il male. Va a caccia di quello che gli
dà piacere e gioia, come una falena della luce, e si arrabbia con tutto quello
che, dal suo punto di vista, lo ferisce o lo offende. Per questo è incoerente:
non si fa problemi a trascorrere “certe mezz’ore” con le altre donne del
castello, ma è geloso marcio di Rosina e non sopporta l’idea che anche lei
possa tradirlo. Mi è simpatico perché è umano, non è uno stereotipo che si
innamora di un ritratto. Mi è simpatico perché alla fine riesce a venire a capo
di tutti i suoi guai (che si è più o meno autoinflitto), capisce di aver
sbagliato e chiede perdono. E cambia.
Ma andiamo con
ordine. L’opera si apre con la famosa scena in cui Figaro, che qui è il
servitore del Conte di Almaviva, prende le misure della camera che il suo
padrone ha assegnato a lui e alla sua promessa sposa Susanna, cameriera della
Contessa, per collocarvi il loro talamo. Susanna però è agitata e alle sempre
più pressanti domande di Figaro confessa che il Conte si è preso per lei una
bella scuffia e che, in cambio della dote di nozze, pretende di esercitare su
di lei il diritto feudale. In altre parole: vuole portarsela a letto. Figaro,
offeso, promette di fargliela pagare.
La trama
dell’opera è molto più articolata di quella del Barbiere. Tutti i personaggi
sono pieni e vivi, ognuno con i suoi intrighi e i suoi garbugli. Qui adesso vi
racconto soltanto del Conte e di Rosina.
Rosina viene a
sapere dalla stessa Susanna che il Conte non le è fedele. Lei però lo
sospettava. Già da tempo non era felice della condotta del suo “moderno marito”,
al tempo fedifrago e geloso. Dove sono andati i bei momenti? Che fine hanno
fatto tutte le promesse e i giuramenti pronunciati da quelle labbra menzognere
– che, nonostante ciò, lei ancora ama?
Come farlo
redimere? Rosina, riaccesa dall’antico fuoco di rivalsa, decise di tendergli un
tranello insieme a Susanna. Quest’ultima gli dovrà far credere di cedere alle
sue lusinghe e quindi di accettare di concedersi a lui.
Tra un sì e un no,
un no e un sì, il Conte (qui Rod Gilfry) cerca di acciuffare la cameriera per
accelerare i tempi e giubila al pensiero di farla sua, mentre Susanna si scosta
e si scusa con tutti quelli che amano perché è costretta a mentire. Qualche
scena più in là i due si accordano, grazie a un bigliettino, di trovarsi con il
favore della notte in giardino e consolare lì le loro voglie.
Tutto è così
disposto. Il Conte, convinto di avere un appuntamento hot con la tanto desiderata cameriera, all’ora stabilita si reca al
luogo dell’incontro. Nel frattempo, però, Susanna e Rosina, per trarlo in
inganno, si sono scambiate i vestiti e quella che, nella semioscurità, il Conte
bacia avidamente non è Susanna, ma la sua stessa consorte che veste i panni
della cameriera.
Il Conte però non
riconosce le stranote mani e si meraviglia di quanto siano morbide le dita che
crede sconosciute. Si eccita: il calore del corpo di una donna “nuova”
riaccende tutto il suo ardore. Mi chiedo sempre come diamine faccia a non
riconoscerla. Se non la forma delle mani, ma almeno l’odore della pelle, la
voce… Le cose sono due: o è un marito molto distratto, o il testosterone gli ha
dato completamente alla testa, obnubilandogli tutti i sensi. Chissà. La
conclusione sembrerebbe essere che basta abbassare le luci e indossare gli
abiti di un’altra persona per ravvivare il fuoco della passione di una vecchia
coppia – ma non vogliamo essere così prosaici. Un rumore interrompe quello che
ancora non si è consumato e i due amanti si separano per paura di essere
scoperti.
Chissà cosa avrà
pensato Rosina vedendo l’amato consorte fare una corte sfrenata a quella che
lui credeva essere Susanna. Chissà se avrà avuto dei rimpianti, se si sarà
chiesta come sarebbe stata la sua vita se non si fosse lasciata ammaliare da
Lindoro. Chissà se ha mai ripensato a Bartolo e al suo amore incondizionato per
lei.
Nelle Nozze Bartolo sembra essersi in qualche
modo consolato dalla “rottura” con Rosina. Dopo aver scoperto che Figaro è
nientemeno che il figlio che lui, anni addietro, aveva concepito con Marcellina
– la quale, prima di questa scoperta, aspirava a diventare la moglie di Figaro
(allarme incesto) – decide (più o meno liberamente) di sposare quest’ultima. Se
lui sarà davvero contento insieme a questa donna petulante non lo
so, però troppo insoddisfatto non sembra.
Ma torniamo ai
nostri amanti in giardino. Li abbiano lasciati che si erano appena divisi
perché avevano sentito un rumore. Il Conte spia dal suo nascondiglio chi gli aveva
rotto le uova nel paniere e vede Figaro intento ad amoreggiare con – sua moglie
Rosina. O almeno quella che lui pensa essere sua moglie. Si tratta invece di
Susanna travestita da Rosina che mette in scena l’ultimo atto del piano
escogitato con quest’ultima per dare una lezione al marito. Il Conte ci casca
con tutte le scarpe e, pazzo di gelosia, corre come una furia verso la
fedifraga coppia, la quale si nasconde in un antro. Pensando di cogliere in
fallo Rosina, il Conte chiama i suoi uomini al suono di “Gente, gente!
All’armi, all’armi!”. La gente si raduna e il Conte, pensando di esporre la
coppia rea alla pubblica umiliazione, li strattona fuori dal loro nascondiglio.
Figaro e Susanna
(sotto le spoglie della Contessa) chiedono perdono all’unisono, ma il Conte è
irremovibile. “No, no, non sperarlo!”, continua a ripetere. L’offesa è troppo
grave, l’onta con cui la moglie lo ha macchiato non può essere lavata con
parole di perdono. Le rimprovera un tradimento che lui stesso era in procinto
di compiere – se non fosse stato interrotto, appunto, da loro. Improvvisamente
una voce proveniente dal fondo del palco fa ammutolire tutti. La Contessa,
quella vera, compare quasi dal nulla come un fantasma. “Almeno io per loro
perdono otterrò”, canta.
Il Conte la guarda
e, dopo qualche lungo secondo di silenzio, si inginocchia e intona uno dei
canti più commuoventi che io abbia sentito mai, con le sole parole: “Contessa,
perdono”.
Mi piace pensare
che il Conte, quando vede comparire Rosina, si redima davvero. Mi piace
pensarlo perché questo Andante fa
vibrare tutte le corde del mio cuore e a mala pena, quando lo ascolto, riesco a
trattenere le lacrime. Mi piace sognare che anche nella vita vera gli errori,
le azioni che feriscono, si possano risolvere così. Con il perdono.
La Contessa
accetta le scuse del Conte, lui le bacia la mano sotto lo sguardo commosso di
tutti e il coro conclude: “Ah, tutti contenti saremo così”. Tutti contenti,
come nelle favole.
Poi Allegro assai. Archi, flauti, oboi,
clarinetti, fagotti, corni, trombe e timpani per il gran finale.
Questo giorno di tormenti,
di capricci e di follia,
in contenti e in allegria
solo Amor può terminar.
Sposi, amici, al ballo! Al gioco!
Alle mine date fuoco,
ed al suon di lieta marcia
corriam tutti a festeggiar!
Anche Le nozze di Figaro si concludono, come
il Barbiere, con uno sposalizio –
addirittura doppio: quello di Susanna e Figaro e quello di Bartolo e
Marcellina. Se Susanna sarà contenta, se rimpiangerà di non aver davvero ceduto
alle lusinghe del Conte o di non avere scelto uno sposo più giovane e fervente
come Cherubino (evidentemente i toy-boys
erano in voga già allora) non ci è dato saperlo. Ma anche nelle favole questo
non lo dicono – e tutte si concludono con un happy end.
Sebbene siano state composte da due
persone diverse, in due momenti diversi, il Barbiere
di Siviglia di Rossini e Le nozze di
Figaro di Mozart rappresentano due frammenti della stessa storia. Il Barbiere, la cui prima esecuzione è
datata 1816, costituisce l’antecedente di quello che si svolge nel libretto di
Da Ponte, messo in scena da Mozart nel 1786. Quando l’ho realizzato mi sono
stupita. All’inizio pensavo fosse un caso che il protagonista delle due opere
si chiamasse Figaro: concentrandomi più sulla musica che sulla storia non mi
ero resa conto che anche gli altri personaggi fossero gli stessi. A
giustificare la mia sbadataggine depone il fatto che i nomi e le funzioni dei
protagonisti dell’una e dell’altra opera erano cambiati: nell’opera di Rossini,
Figaro è il barbiere più in della
città, nelle Nozze è presentato
invece come il servitore del Conte di Almaviva. Il Conte delle Nozze si fa chiamare Lindoro nel Barbiere per essere sicuro che Rosina si
innamori di lui e non dei suoi soldi o del suo titolo nobiliare. Nelle Nozze Rosina, che è già sposata con il
Conte, è chiamata tutto il tempo Contessa di Almaviva. Solo una o due volte
viene chiamata, di sfuggita, col suo nome, ma nella concitazione dei duetti e
dei terzetti non è la prima cosa che salta all’occhio – o all’orecchio. Il dottor
Bartolo, tutore autorevole ma goffo di Rosina nel Barbiere, nelle Nozze è
solo una macchietta che, alla fine della fiera, si rivela essere il padre di
Figaro e sposa la “vecchia” Marcellina, sua fiamma di gioventù. Nelle Nozze, poi, ci sono personaggi che nel Barbiere non compaiono: Susanna, la
promessa sposa di Figaro, il paggio Cherubino e Barbarina – per citarne
qualcuno. Sbadataggine la mia, ma parzialmente giustificata.
Rosina è un personaggio che mi piace
e al quale mi sento molto vicina. Se non fosse che in tedesco il suo nome suona
come Rosinen, ovvero uva passa, che trovo disgustosa, avrei
quasi voluto chiamarmi così (per inciso: il mio nome, in inglese, suona come succoso, che tanto meglio non è). Rosina
è testarda, cocciuta, impertinente (frech), finta arrendevole, ma allo stesso tempo sognatrice e un
po’ ingenua – quadro che dipinge lei stessa nell’aria Una voce poco fa del Barbiere
che posto qui nell’interpretazione della Callas, la mia preferita. “Io sono
docile” dice “son rispettosa, sono obbediente, dolce e amorosa. Mi lascio
reggere, mi fo guidar”. L’immagine della fanciulla sottomessa, che si rimette
alla volontà dell’uomo, padre-padrone? Sembra di sì, ma… Ma Rosina continua (e il ma
della Callas in quest’aria, al minuto 4:04, riflette tutta la Frechheitdel personaggio):
“Ma se mi toccano qua nel mio debole,
sarò una vipera. E cento trappole, prima di cedere, farò giocar”.
Che cosa succede? La storia ve la
racconto seguendo la cronologia della narrazione e non l’ordine cronologico con
cui le due opere sono state composte.
Nel Barbiere il Conte di Almaviva si innamora di Rosina, giovane
pupilla del dottor Bartolo. Per conquistarla ricorre all’aiuto dello scaltro
Figaro, il factotum della città –
come lui stesso si definisce. Insieme a lui il Conte, che da questo momento in
poi si farà chiamare Lindoro, elabora una serie di stratagemmi per riuscire a
introdursi in casa del dottor Bartolo, dichiararsi all’amata e andare via
insieme come marito e moglie. Le escogitano tutte: prima si traveste da soldato
ubriaco, poi da insegnante di musica, sostituto di don Basilio.
Sembra proprio innamorato pazzo.
Malauguratamente per lui però anche Bartolo è innamorato della sua pupilla e già da
tempo progetta di sposarla.
Il dottor Bartolo, a discapito
dell’antipatia che Rosina prova nei suoi confronti, a me risulta simpatico e
quasi quasi ho fatto il tifo per lui e non per Lindoro. Forse perché lui è un
basso – e il mio debole per i bassi non è un mistero –, mentre Lindoro è un
tenore. E dei tenori non mi fido. Forse perché il suo amore per Rosina si basa
su una profonda conoscenza reciproca e non sul fascino dell’aspetto fisico di
lei. Bartolo ama Rosina con tutti i suoi difetti. L’amerà Lindoro allo stesso
modo, quando al mattino la vedrà spettinata e senza trucco? Riuscirà a tenere
testa a quel caratterino? La risposta la dà Mozart nelle Nozze di Figaro, ma di questo parlerò dopo.
Il dottor Bartolo è un tenerone e
per conquistare la simpatia della sua pupilla non si vergogna a rendersi
ridicolo:
Questo però non significa che si
faccia prendere in giro facilmente. Quando sospetta che la sua amata e Figaro
stanno tramando qualcosa alle sue spalle fa valere la sua autorità – o almeno
ci prova…
Un dottor della sua sorte non si
lascia infinocchiar? Forse, ma Rosina è cocciuta. Adesso si è fissata che vuole
scappare con l’affascinante Lindoro e chi può toglierle di testa quest’idea?
Lei è giovane, Lindoro è bello. Anche lei si dichiara innamorata persa di un
tipo che ha visto solo di sfuggita dal balcone. Un tenore per di più. Ma tant’è
– vuole sentirsi libera, vuole sperimentare la vita, vuole fare come tutte le
ragazze della sua età (Così fan tutte,
appunto). Ne risulta il classico schema della commedia dell’arte: una coppia di
innamorati, un “cattivo” che si oppone alla loro unione e un servo astuto che
li aiuta ad averla vinta. Dopo tante peripezie e un immancabile equivoco
finale, tipico della commedia, Rosina scopre che Lindoro è nientemeno che il
Conte di Almaviva e i due riescono a sposarsi.
“Amore e fede eterna si vegga in voi
regnar” conclude il coro, mentre il Conte e Rosina, bellissimi e raggianti,
coronano il loro sogno (?) d’amore. Ma sarà davvero un “felice innesto”? Sarà
contenta Rosina della sua scelta o avrà dei rimpianti? Il Conte si rivelerà
essere quel giovane innamorato che le aveva fatto perdere la testa?
Si dice che per
ognuno di noi ci siano sette sosia sparsi per il mondo. Già i greci ci
insegnano a non prestare fede a quello che “si dice” (λέγεταί
δή), ma con quello che “si dice” anche i filosofi hanno creato miti e immagini,
per gioco o per alludere a questioni più complesse. Non sono saggia, io, così
con quello che si dice mi permetto solo di giocare.
Questa storia dei sette sosia, che è
proprio una sciocchezza, mi è venuta in mente qualche mese fa quando, sulla
strada dietro alla stazione della cittadina svizzera in cui ho studiato e
vissuto, ho incontrato il sosia del mio ex.
Era già buio, ero appena uscita
dall’università e stavo andando al supermercato della stazione perché tutti gli
altri lì chiudevano già alle 18 (tasto dolente del mio soggiorno in svizzera) –
quando ho visto delinearsi di fronte a me una figura molto familiare. Stessa
età, stesso colore dei capelli, stessa corporatura e…stessa faccia. Per un
attimo ho pensato davvero che fosse lui e mi è preso quasi un colpo: che cosa
ci faceva lì? Sebbene l’università sia grande, la città è piccola come un paese
e, per quanto carina, non ci sono attrazioni che stimolino il turismo
internazionale: soltanto distese verdi e mucche, tantissime mucche. La sagoma
si avvicinava e, sempre mezza convinta che fosse lui, mi domandavo che cosa gli
fosse capitato: era vestito come un simil-punk-fricchettone, qualche ciocca di
capelli rasta, un enorme zaino da vagabondo sulle spalle e cinque o sei
sacchetti e sportine di plastica in mano. Solo quando era a pochi passi da me
mi ho capito che non era lui, nonostante l’impressionante somiglianza. Devo
avere avuto una strana espressione dipinta in volto perché lui, guardandomi, ha
sorriso divertito. Quell’incontro è stato però molto fugace e mi sono detta che
in fin dei conti la somiglianza non forse era così eclatante: c’era buio ed era
probabile che mi fossi sbagliata.
L’altro ieri però sono tornata in
Svizzera. Un po’ assonnata e un po’ persa nei miei pensieri mi preparavo a
scendere dal treno, dopo un viaggio lunghino, cercando l’energia per mettermi
al lavoro. Ero così sulle scalette, in procinto di abbandonare il vagone, e chi
ho visto tra i passeggeri che, a pochi centimetri da me, aspettavano che si
sgombrasse l’ingresso per salire? Il sosia. Questa volta era mattina, c’era il
sole e non potevo sbagliarmi: era proprio uguale uguale. Adesso aveva tagliato
via i rasta e aveva i capelli rasati da una parte, mettendo in mostra un paio
di orecchini e un dilatatore per orecchie. Non ho resistito e, guardandolo,
sono scoppiata a ridere. Sarò sembrata matta. Ha riso anche lui. Questo mi ha
dato la conferma che si trattava di un’altra persona: l’originale sarebbe lungi
dal volere condividere con me un sorriso. Ma tant’è. Il sosia mi ha dato l’impressione
di aver fatto pace con una parte del mio passato.
In Germania una
giornata di metà novembre con sole e cielo terso può significare solo una cosa:
l’inverno è alle porte. L’ho imparato a mie spese la prima volta che sono
andata a Berlino. Era fine dicembre di qualche anno fa, avevo trascorso le
vacanze di Natale con la mia famiglia in Sicilia e avevo prenotato un volo
diretto Catania-Berlino. Finalmente avrei visitato la capitale! Quell’inverno mediterraneo
era particolarmente mite: nel mio paese dell’entroterra c’erano 15 gradi, a
Palermo – dove vado ogni volta che posso perché è la città italiana in cui più
mi sento a casa – 18 circa. Io avevo lasciato una Germania freddina, ma non
freddissima, e facevo la sborona andando in giro senza cappotto davanti agli
occhi allibiti di parenti e amici per i quali ero ormai diventata una tedesca a
tutti gli effetti.
Il giorno della
partenza sono andata all’aeroporto vestita a strati in previsione della
Germania. Immaginavo che a Berlino ci sarebbe stato più freddo – non ero
ingenua fino a questo punto. Sono arrivata che era già buio, tirava vento e
pioveva. Ero però così eccitata di essere finalmente arrivata che sul momento
non ho badato molto al tempo. Ho cenato e sono andata a dormire.
Sono stata
svegliata, il giorno dopo, da un raggio di sole che filtrava allegro attraverso
i vetri un po’ sporchi della mia camera. Mi sono alzata un po’ intontita, ho
guardato fuori e non potevo credere ai miei occhi: un cielo azzurro e limpido
così non c’era nemmeno in Sicilia – mi sono detta. Quale tempo migliore per la
mia prima spedizione in città? Sono scesa di sotto, ho fatto una colazione
frugale, mi sono lavata e preparata per uscire. Incoraggiata dal sole ho
indossato (lo ricordo come se fosse successo stamani): un paio di collant
pesanti, ma non di lana, una gonna di jeans, una maglia di misto acrilico con
su una giacchetta senza ambizioni e un giubbino rosso imbottito ma corto.
Niente guanti. Niente cappello. Stavo per lasciare la casa quando lei mi dice
“Sei sicura di volere uscire così? Fa molto freddo oggi”. Le rivolgo un sorriso
sghembo mentre penso: “Esagerata! Questi tedeschi pensano che solo perché vengo
dal sud dell’Europa non sono in grado di sopportare il freddo teutonico. Vivo
già da qualche annetto in Germania, non è il mio primo inverno qui”. Più per
accontentarla che per tranquillizzarla porto con me anche una sciarpa. Appena
fatto qualche passo sul vialetto davanti casa mi sono subito pentita del mio
outfit, ma un po’ per orgoglio e un po’ perché avevo paura di perdere l’autobus
mi sono decisa di non tornare a cambiarmi. Non credo di avere mai sentito freddo
come quella giornata a Berlino: il gelo arrivava fino alle ossa, non avevo più
la sensibilità nei piedi, che mi facevano male, non potevo tirare fuori le mani
dalle tasche (e infatti ho fatto pochissime foto), ogni mio respiro produceva
una nuvoletta di fumo, le orecchie erano diventate due ghiaccioli. Correvo da
un museo a un bar e da un bar a un museo e quando finalmente la sera sono
arrivata al teatro dell’opera mi sono lasciata cullare dal tepore della sala al
punto che ho rischiato un paio di volte di addormentarmi – cosa che non mi
succede mai quando ascolto l’opera. Non che non ci fossero e non ci sarebbero state
giornate fredde nella mia vita (mi sono rotolata su metri di neve delle Alpi,
ho visitato città più al nord, ci sono stati inverni più rigidi nei posti in
cui ho abitato). Solo non me l’aspettavo. Il freddo mi ha presa in contropiede
ingannandomi con un cielo blu e un sole gelido. Il cielo grigio, le nuvole basse e minacciose sono molto meno infidi di una giornata limpida in inverno qui.
Ho imparato così la
lezione: se in Germania il cielo è terso, prendi il cappotto!
Avrei voluto
concludere il capitolo della mia “avventura andalusa” raccontandovi di Granada
e della magia dell’Alhambra, ma per quanto mi sforzassi di ricostruire le
immagini, gli odori e le sensazioni provate in quel luogo, non riuscivo a
trasformarle in soldatini neri e ordinati sullo sfondo bianco del mio file
word. Non riuscivo a far rivivere il caldo umido dell’Andalusia con i 10 gradi
piovigginosi dell’autunno tedesco.
Sono tornata in
Germania.
La prima cosa che
ho fatto al mio ritorno è stata ammalarmi. La stanchezza di un’estate da
vagabonda mi si è riversata addosso non appena oltrepassato il confine. Ho
trascorso così la prima settimana vegetando sul divano con febbre e mal di gola.
Da nomade tornare sedentaria – difficile il passaggio.
A partire dalla
seconda settimana ho esercitato tutti i lavori possibili meno che il mio. Ho
fatto la traslocatrice, l’artigiana, la tappezziera (e con quale talento!), la
montatrice di mobili e la parrucchiera. Un dottorato in filosofia e due braccia
sottratte alla manovalanza – ha commentato la mia migliore amica. In tutto
questo ho dovuto occuparmi anche di consegne, scadenze, Anmeldungen, scartoffie e tutte quellecose da grandes personnes che
fanno male alla fantasia.
Poi finalmente ho
ritrovato la concentrazione di tornare al mio lavoro, al mio libro. Una volta
alla settimana, invece, per guadagnare qualcosina in più e perché mi diverte,
ho ripreso a insegnare italiano presso un conosciuto istituto nella città in
cui vivo.
Cerco un
equilibro nuovo, mi adatto a una situazione nuova a una fase di passaggio.
La temperatura si
è abbassata ancora e anche il blu del cielo preannuncia l’arrivo di un inverno al
quale non mi sento preparata. Ce la farò?
A Málaga sono costretta a ridimensionare un po' le mie aspettative. È carina e c'è tanto da vedere: il museo di Picasso, la sua casa natale, la Cattedrale, il Castillo de Gibralfaro e l’Alcazaba
– una fortezza araba costruita sulla base di una
fortezza fenicio-punica – ma ho ancora davanti agli occhi i tesori di Siviglia e di Cordoba, quindi non riesco a stupirmi davanti alle bellezze di questa nuova città. Credo che l'Alcazaba mi avrebbe incantata se non
avessi visitato prima l’Alcázar di Siviglia e la casa di Pilato; quindi se
progettate un viaggio in Andalusia e avete intenzione di visitare anche Málaga
vi consiglio di cominciare da qui e fare il percorso inverso.
Sono già un po’
stanca dai giorni passati, trascorsi rimbalzando da una parte all’altra delle città che ho visitato, con la smania di voler vedere tutto, di non sprecare un
istante. Ho i piedi doloranti e sono sfossata dal caldo umido della città marittima,
così decido di rallentare il ritmo e trascorrere qui qualche pigra giornata da
turista sfaticata.
La mia attuale
“casa” è diversa dalle sistemazioni precedenti: per la prima volta da quando
sono partita non “abito” in centro, ma in periferia – e le periferie delle
città si assomigliano un po’ tutte: strade aperte al traffico, negozietti di
frutta e verdura, supermercati, discount, negozi cinesi, estetiste,
parrucchiere. Mi ricorda il quartiere in cui ho abitato lo scorso inverno ad
Atene. L’appartamento in cui mi sono insediata è molto carino. Sembra una
grande WG (in tedesco: Wohngemeinschaft, ovvero appartamento
condiviso) con quattro camere, nelle quali soggiornano gli ospiti della
struttura, due bagni (uno ogni due camere), un soggiorno, una cucina e due
grandi terrazze. A me tocca una piccola camera con un letto a castello un po’
sfondato da una parte e un climatizzatore a gettoni. Nonostante non sia oggettivamente
bella, questa camera ha un qualcosa che non so spiegare, che mi rassicura, mi
accoglie e mi fa subito sentire a casa.
Condivido il
bagno con una donna francese che non parla altra lingua all’infuori della sua
(e sono molto contenta che il mio soggiorno in un’università francofona in
Svizzera mi abbia resa capace di conversare anche in francese), e la cucina con
una coppia cilena sulla sessantina che parla solo spagnolo. Nel mio spagnolo
zoppicante trascorriamo a chiacchierare sulla terrazza più di una sera, consumando
le nostre cene. Loro sono molto dolci e simpatici. Dopo pochi quarti d’ora
insieme mi trattano quasi come fossi figlia loro: mi chiamano chica o mi corazón, lui mi spiega cosa fare e cosa non fare in città, in
quale lido andare a fare il bagno, che autobus prendere. L’ultima sera si offre
di prenotare per me (in spagnolo) un taxi per l’indomani per andare alla
stazione dei bus, dalla quale sarei dovuta partire per Granada. Poi ci
separiamo con grandi abbracci e molti auguri per il futuro e andiamo a dormire.
Anche la donna
che gestisce l’appartamento, Graciela, è molto simpatica e anche lei parla solo
spagnolo, al contrario di suo marito Jorge che conosce sia l’inglese che
l’italiano. Graciela è una donna di quasi sessant’anni, molto dinamica e
divertente. È con lei che faccio, per pochi euro, la prima manicure della mia vita in un piccolissimo salone di bellezza sotto
casa (e credo che quello sia il posto in cui ho imparato più parole in
spagnolo fin ora).
Qui a Málaga trascorro
le giornate facendo lunghe e lente passeggiate nel centro città, facendo
piccole soste in qualche negozietto e visitando, con molte pause, le attrazioni
turistiche e i siti d’interesse. Ogni volta che scorgo una panchina all’ombra, mi
ci fiondo e prendo posto per rifocillarmi dal caldo soffocante e dalla
stanchezza. Scrivo lunghe cartoline e pagine del mio quaderno, cerco di
imprimere i miei pensieri e le mie impressioni su carta, trasformare in
inchiostro il groviglio di emozioni che mi attraversano mente e cuore.
Per la prima
volta dal mio arrivo in Spagna mi concedo dei pasti tranquilli e abbondanti,
non più i pranzi frugali e improvvisati consumati all’interno dell’Alcázar di Siviglia o sulla piazzetta
davanti alla Mezquita di Cordoba:
scopro un piccolo ristorante di tapas
non lontano dal centro e divento cliente abituale. L’ultima sera del mio
soggiorno a Málaga mangio finalmente la paella
e mi chiedo perché non l’abbia fatto prima. Voglio infine sfatare un
pregiudizio: non è vero che in Spagna il gelato è cattivo. Prima di partire,
una conoscente mi aveva messa in guardia: “Non prendere il gelato lì”, mi aveva
detto, “se hai fortuna non sa di nulla, se non hai fortuna è disgustoso”. Evidentemente
ho avuto più che fortuna, perché a Málaga ho mangiato un gelato buonissimo (la
gelateria si chiama Nonna, se può
interessarvi).
Non sono riuscita
a vedere uno spettacolo di flamenco come si deve, ma in compenso ho comprato un
paio di scarpette: ho intenzione di tornare a ballare. Porterò almeno un po' di Spagna con me nell'inverno freddo che mi aspetta.
Ormai il mio soggiorno qui sta volgendo al termine. Domani sveglia
alle 5:00. Alle 6:30 parte l’autobus che mi porterà nell’ultima sognata tappa di questa avventura: l’Alhambra di Granada.
È tempo di
lasciare Siviglia. A malincuore rimetto nello zaino i libri, la mia (non sempre
affidabile) guida crucca dell’Andalusia, le cartoline, un paio di regalini, i
miei pochi indumenti e guardo per l’ultima volta la camera che per qualche
giorno ho chiamato “casa”, suscitando l’ilarità e talvolta la simpatia dei miei
interlocutori. Dopo aver accertato (a quanto pare anche la fisiognomica lo
conferma) e accettato la mia condizione di straniera ovunque, mi sono arrogata
il diritto di sentirmi a casa dappertutto, chiamando casa tutti i luoghi in cui mi sono insediata, in cui mi sono
sentita bene. E a Siviglia mi sono sentita a casa.
Per una nomade,
però, nessuna casa è definitiva, così raccolgo zaino e ricordi e mi dirigo alla
stazione del bus. Prossima tappa: Cordoba.
Prendo posto sull’autobus spazioso. L’autista, dopo aver controllato i biglietti, accoglie
ogni passeggero porgendogli un sacchetto di carta contenente: uno snack, una
bottiglietta d’acqua e un paio di auricolari. Il lusso. Non mi era mai capitato
di vedere un bus così chic: comodo e
lindo, sedili in pelle reclinabili con poggiapiedi regolabile, piccolo schermo davanti
a ogni sedile per guardare un film o ascoltare della musica – altro che gli
autobus della compagnia verde risparmio che prendevo abitualmente per andare in
Svizzera (con il wc rotto e puzzolente e i sedili squinternati)!
Rinuncio tuttavia
a una fetta di questo lusso decidendo di ignorare lo schermo, indosso le
cuffiette del mio inseparabile lettore mp3 e mi accomiato da Siviglia
ascoltando ancora una volta Il Barbiere,
che è la colonna sonora di questo mio viaggio.
Il paesaggio che
scorre davanti ai miei occhi non è dissimile da quello che vedo dall’autobus
che, in Sicilia, dall’aeroporto di Palermo mi porta alla stazione del mio
paese, tanto che per un attimo, in uno stato di sonnolenza, mi sembra di vedere
il profilo delle sue stranote case. Trasalisco. Poi mi ricordo di essere in
Spagna e mi lascio cullare dal rumore del motore.
Guardando la
cartina dell’Andalusia non mi ero resa conto di quanto fossero grandi le
distanze tra una città e un’altra. O meglio: non potevo rendermi conto di quanto
sembrassero grandi tali distanze, dal
momento che sulla cartina non si vede che tra un centro abitato e l’altro non
c’è niente – all’infuori di distese a perdita d’occhio di terra bruna e di campi
bruciati dal sole. Dopo qualche ora di viaggio e qualche quarto d’ora di sonno
faccio finalmente la conoscenza di Cordoba, la città dei Califfi, di Averroè e
di Maimonide. Ad accogliermi ci sono 40 gradi e un sole che, nonostante siano
appena le 10.30 del mattino, picchia e brucia e intimorisce i turisti più biondi
che iniziano a ungersi di creme solari dall’odore pungente.
Dopo una piccola
sosta in un bar, nel quale faccio colazione con pane e pomodoro e un zumo de naranja por favor, mi dirigo alla Mezquita, letteralmente il “luogo dove prostrarsi”, oggi nota come
Grande Moschea o Moschea-Cattedrale.
Non credo di
avere mai visto nulla di più impressionante. Entro in quella che, a prima
vista, mi sembra un’immensa moschea (al già imponente edificio originario, progettato
dall’emiro Abd al-Raḥmān I, sono stati aggiunti tre grandi ampliamenti
commissionati da ʿAbd al-Raḥmān II
prima e da al-Ḥakam II
dopo). Cammino tra arcate e colonne, per colore e forma tipiche
dell’architettura islamica. I cunei bianchi e rossi e la ripetizione ritmica dei
capitelli mi danno l’impressione che lo spazio si dilati all’infinito e che i
confini siano irraggiungibili.
Ma proprio quando
il mondo arabo mi ha rapita al mio e ho l’impressione di trovarmi non in Spagna
ma in un racconto delle Mille e una notte,
ecco che vedo una croce, un altare cattolico, una raffigurazione dell’ultima
cena, la statua di un santo, quella della Madonna. Disorienta continuo a
camminare fino a quando, improvvisamente, mi trovo sotto la cupola bianca e dorata
della Cattedrale barocca. Lo stupore.
L’incredulità.
Con questo video
vi mostrerò il percorso inverso, che vi porterà dalla Cattedrale fino
all’ampliamento di Al-Hakam II, con le sue arcate polilobate e il dorato Mihrab, punto di riferimento per la
preghiera dei musulmani: una nicchia a otto lati, delimitata da archi che
rappresentano le porte per l’aldilà, attraverso le quali dovevano ascendere le
preghiere dei fedeli, la quale termina in una cupola a conchiglia, simbolo
della vita.
Questa insolita
mescolanza di religioni e influenze, che oggi forse ci stupisce, sta invece
alla base della cultura andalusa, luogo in cui hanno convissuto – ora in pace,
ora in reciproca tolleranza, ora in guerra – religioni e culture diverse: si
tratta infatti di un Paese dominato dapprima dal Califfato arabo-islamico e
successivamente conquistato dall’estremo cattolicesimo europeo (non per niente
Cordoba era sede di uno dei tribunali speciali dell’Inquisizione).
Tale convivenza
di culture e religioni è testimoniata anche dalla presenza di un quartiere
ebraico, la Juderia, ovvero l’antico
ghetto abitato dagli ebrei fino a quando i Re Cattolici, nel XV secolo, li
espulsero dalla città. È più grande della Juderia
di Siviglia e in essa si trova anche una Sinagoga che dicono essere molto
bella – cosa che purtroppo non ho potuto verificare con i miei occhi perché in
estate tutti i principali siti di interesse a Cordoba (la Sinagoga, l’Alcázar e
Museo Taurino – che pure non mi interessava) chiudono alle tre del pomeriggio. Continuo
a passeggiare così perdendomi nelle stradine della Juderia, immaginando un tempo senza turisti in cui, in questi
vicoli, in mezzo a queste case imbiancate a calce, filosofi arabi e pensatori
ebrei hanno partorito e messo per iscritto le loro idee. Passo sognante attraverso la via dedicata ad Averroè.
Senza accorgermene arrivo infine in Plaza de Tiberiades
e mi imbatto in una figura familiare: si tratta della statua di Mosè Maimonide,
autore della Guida dei perplessi, che
avevo studiato durante il mio ultimo anno di università a Palermo e che mi
aveva tanto impressionata. E siccome perplessa lo sono tutt’ora – e forse ancora
più che in passato – tocco la punta della sua scarpa e intrattengo con lui una
conversazione silenziosa e confidenziale.
Chissà, forse il tocco di quella scarpa renderà
un po’ più saggia anche me.
Mentre mangio una
tapa nel locale affollato di una strada non lontana da “casa mia” qui a
Siviglia, sento il suo sguardo su di me. Corrugo la fronte con espressione interrogativa
e un po’ di disagio: non mi piace quando qualcuno mi fissa. “Ho qualcosa che
non va?” chiedo, immaginando di avere qualcosa tra i denti. “No, è solo che hai
un volto interessante”.
Interessante
lo si dice anche davanti di un’opera d’arte astratta di dubbio gusto. Glielo
faccio presente.
“Non mi
fraintendere, è un complimento” continua “hai i lineamenti da gitana – come Esmeralda del Gobbo di
Notre-Dame”.
“Una zingara
allora?”, rido.
“Una nomade”
conclude.
Una nomade, è
vero. Non ha sbagliato questa persona che mi conosce appena. Che mi sia scritto
in faccia il mio destino?
Mi viene in mente
il frammento di un dialogo del poco conosciuto filosofo socratico Fedone, Zopiro. In questo dialogo il
fisionomista Zopiro, dopo aver osservato attentamente i tratti del volto di
Socrate, dichiara che il suo aspetto esteriore farebbe pensare a una natura
intellettualmente limitata e incline ai vizi. Gli amici di Socrate ridono:
questo fisionomista deve essere un incompetente o un ciarlatano! Come fa a dire
che Socrate, maestro di virtù e di temperanza, sia ottuso e vizioso? Solo
Socrate non ride e anzi guarda Zopiro con divertita ammirazione. “Ci hai visto
giusto, caro Zopiro, ti faccio i miei complimenti”. Gli amici di Socrate
improvvisamente smettono di ridere e guardano increduli prima Socrate, poi
Zopiro e poi di nuovo Socrate. Cosa sta dicendo? È impazzito? Socrate aggiunge:
“Quello che dici su di me è vero, ma io sono riuscito a domare la mia natura
viziosa attraverso il logos”.
Che cosa avrebbe
detto Zopiro di me? Una persona che mi conosce da tre giorni ha visto una
nomade nei tratti del mio viso – forse era scritto già lì il mio destino, anche
quando abitavo in un piccolo paese dell’entroterra siciliano e non conoscevo
altra lingua all’infuori della mia e del mio dialetto, anche quando non avevo
ancora oltrepassato i confini nazionali e a malapena quelli ragionali. Nomade.
Forse Socrate mi
direbbe che ciò che i tratti somatici rivelano si può cambiare, educare, domare.
Ma in fondo non mi dispiace essere nomade.
Il viaggio che mi
ha condotta in Spagna mi ha fatto attraversare non soltanto tre nazioni in tre
giorni, ma anche tre stagioni: ho lasciato un clima d’inizio inverno sulle
montagne dei Grigioni, sono passata attraverso un autunno piovigginoso milanese
per giungere alla bollente estate spagnola, con i suoi 38 gradi. Sotto il sole
ancora rovente del tramonto che tinge di arancione le facciate degli
edifici bianchi e l’odore di cavallo che invade le narici dei passanti e dei
turisti sulla piazza della Cattedrale di Siviglia inizia la mia avventura
andalusa.
La Spagna mi
sorprende subito per la sua organizzazione. Nel mio immaginario era un posto un
po’ caotico, non troppo dissimile dall’Italia. Credevo che, come nel mio paese
d’origine, i mezzi di trasporto fossero sempre in ritardo (sia a Palermo che in
alcune zone di Milano – soprattutto in estate – bisognava affidarsi a un
oracolo per sapere quando il bus sarebbe passato e ringraziare tutti i santi se il bus si decideva davvero a
passare), che le persone fossero pigre e le strade un po’ sporche. Come in Italia.
Quel mio lui, del resto, quando eravamo insieme, diceva sempre tutto il male
possibile degli spagnoli, dipingendoli come svogliati e ottusi. Io non ero mai
stata in Spagna e di spagnoli non ne conoscevo. Così, senza rendermene conto, avevo
lasciato che nella mia testa si corroborasse un cliché di cui, fino ad ora, non mi ero nemmeno curata troppo.
Svolta.
Già dal primo
giorno in Andalusia mi rendo conto che l’Italia è assai più indietro rispetto alla
Spagna – e che di simile hanno solo la lingua e quella disinvoltura dei modi
della gente tipica dei paesi mediterranei. Punto.
Tutti i bus in
orario, città molto organizzate (a misura di pedone e a prova di turista –
anche del più imbranato come me, che ho il senso dell’orientamento di un
lombrico ubriaco) e strade linde. Mi stupiscono gli impiegati sprint della
nettezza urbana che, dopo l’una di notte, scorrazzano per la città con i loro
camioncini, si fiondano (letteralmente!) sui bidoni dell’immondizia, li
ripuliscono procedendo a una velocità impressionante, mentre i loro colleghi
inondano le strade di acqua insaponata e le spazzano. Altro che pigrizia! 4 a 0
per la Spagna – e non solo nei Mondiali di calcio.
Il mio viaggio alla
scoperta dell’Andalusia inizia qui a Siviglia e mi porterà a Malaga passando
per Cordoba per giungere (finalmente!) all’Alhambra di Granada.
Per me Siviglia è
un sogno. È la città che ha ispirato grandi (e meno grandi, ma pur sempre
importanti) compositori, che l’hanno scelta come teatro delle loro opere. È la
città delle Nozze di Figaro di
Mozart, del Barbiere di Siviglia di
Rossini e della Carmen di Bizet,
criticato in maniera così sottilmente ironica da Nietzsche in Der Fall Wagner, ma a cui voglio bene,
trattandosi della prima opera che io abbia mai visto dal vivo e addirittura
alla Scala di Milano!
In questa città
quasi a ogni passo mi imbatto in uno dei posti dell’opera.
Mi entusiasmo quando
scopro che a due passi dal posto che per pochi giorni chiamerò “casa” c’è il
balcone di Rosina del Barbiere.
Il
balcone sotto cui Lindoro (pseudonimo usato dal Conte di Almaviva) le aveva cantato una serenata, aveva pregato Figaro
di aiutarlo ad escogitare degli stratagemmi per potersi intrufolare in casa del
dottor Bartolo e rivelare a Rosina i suoi sentimenti, nella speranza di essere
ricambiato e andare via con lei come marito e moglie.
Torno lì una
sera, prima di ritirarmi nella mia stanzetta, mi siedo sugli scalini di pietra
ancora caldi del sole del giorno, nonostante sia già buio, metto gli auricolari
del mio lettore mp3 e mentre ascolto l'aria di Lindoro Se il mio nome saper voi bramateinizio a
fantasticare.
Il giorno
seguente decido di andare alla ricerca del vero
barbiere di Siviglia – o per meglio dire di un barbiere vero a
Siviglia e lo stano in un salone di Calle
Sierpes. Con un po’ di imbarazzo gli chiedo, nel mio spagnolo traballante,
di lasciarsi fotografare e gli spiego perché. Lui è divertito e mi lascia fare.
Scambiamo ancora qualche parola e lo prego di non svelarmi il suo vero nome: per me resterà
così Figaro, il barbiere di Siviglia.
Nella Juderia trovo il posto in cui Carmen
scappa inseguita dai soldati e poco più avanti la strada nella quale si trovava
la taverna in cui incontra Don José ed Escamillo.
Mi imbatto in
luoghi dell’opera persino quando sto cercando qualcos’altro. Quando, nonostante
le tante indicazioni stradali, mi perdo per le strade della città finendo dalla
parte opposta del posto che volevo raggiungere (l’ho detto: lombrico ubriaco),
vedo un palazzo imponente e bellissimo e mi chiedo che cosa possa essere. Ipotizzo che si tratti non meno di un palazzo reale.
Mi avvicino, allora,
sperando che un qualche cartello informativo mi sveli l’arcano. L’organizzata
Spagna anche stavolta non mi delude e di nuovo mi stupisce: è un’ex fabbrica di
tabacco – quella stessa fabbrica in cui è ambientata la Carmen – oggi sede della facoltà di Lettere e Filosofia dell'università di Siviglia.
Insomma, pur non
essendo andata all’Opera, qui l’Opera la vivo davvero.
L’avventura
però è appena cominciata: da domani mi metterò sulle tracce dei filosofi arabi
e dei sultani delle mille e una notte, alla scoperta dei luoghi che hanno visto
convivere – in pace e in guerra – tre culture e religioni. Dall’Alcázar di
Siviglia all’Alhambra di Granada.