martedì 12 dicembre 2017

1003


Scoprire che la tanto agognata discussione della tesi di dottorato avrà luogo nell’aula 1003 – numero delle donne conquistate da Don Giovanni in Spagna sulla lista di Leporello – non ha prezzo. Non ho potuto fare a meno di sorridere quando ho letto la mail della segretaria e mi sono dovuta trattenere dal canticchiare l’aria in biblioteca. Da quel momento non riesco a liberarmi dall’Ohrwurm (parola tedesca che mi piace un sacco, che letteralmente sarebbe verme nell’orecchio, ma che in italiano è tradotto con  tormentone o motivetto nella testa – espressioni che a mio avviso non rendono così bene l’idea), così continuo a cantare tra me e me (e quando non mi trovo in un luogo pubblico anche a mezza voce): ma in Ispagna son già mille e tre – turutututuru – mille e tre.
Mozart mi ammazzerebbe – e avrebbe pure ragione.


 
Dr. to be: countdown.

lunedì 4 dicembre 2017

E Rosina poverina… (seconda parte)


“Amore e fede eterna” augurava il coro alla coppia appena unita in matrimonio, Rosina e il Conte di Almaviva (alias Lindoro). Finalmente ha ottenuto, Lindoro, l’oggetto della sua brama, la musa che ispirava il suo amore. Il coro lo rassicura: ormai nulla potrà separarli. “Questo nodo non si scioglie, sempre a lei ti stringerà”, gli cantano. Che detto così potrebbe anche sembrare una minaccia, ma è la minaccia più dolce per due innamorati. 


Come si dice? Ah già: le ultime parole famose. 
 
Il seguito della storia di Rosina e il Conte di Almaviva è messa in scena da Mozart con Le nozze di Figaro – che, si è detto, è stata composta prima del Barbiere di Rossini. Così oggi farò un salto indietro e passerò da Rossini a Mozart.
Nelle Nozze il Conte è lontano dall’essere quel fervente innamorato di Rosina che era stato quando era Lindoro. Adesso che sono sposati sembra che gli sia venuta a noia sia la moglie che la fedeltà coniugale e, da uomo potente e piacente quale è, decide di esercitare il diritto feudale e soddisfare le sue voglie con le altre donne della sua contea. Arrogante e pieno di sé, si direbbe che l’unica qualità dell’ex Lindoro sia quella di non essere più un tenore, bensì un basso-baritono.
Nell’opera accade spesso che i “cattivi” siano bassi, mentre i “buoni” tenori. Tutti i personaggi giovani, belli e innamorati, da Tamino della Zauberflöte a Lindoro dell’Italiana in Algeri, sono tenori, mentre i “cattivi”, come Osmin dell’Entführung aus dem Serail, il Commendatore del Don Giovanni, Don Alfonso di Così fan tutte, sono bassi. Certo, ci sono delle eccezioni come il saggio Zarastro, basso profondo della Zauberflöte. E ci si potrebbe (e dovrebbe) chiedere che cosa si debba considerare buono e che cosa cattivo – ma in linea generale la regola è questa.
Tornando al Conte. Sarà perché nelle Nozze è, appunto, un basso, sarà perché sono un po’ innamorata di Rod Gilfry e della sua interpretazione del Conte di Almaviva, fatto sta che l’arrogante ed egoista signore aristocratico mi è assai più simpatico dell’ingenuo Lindoro. Il suo carattere è più complesso e meno scontato. È un uomo, mi sembra, in cerca di sé. Non sa dove stia il bene e dove stia il male. Va a caccia di quello che gli dà piacere e gioia, come una falena della luce, e si arrabbia con tutto quello che, dal suo punto di vista, lo ferisce o lo offende. Per questo è incoerente: non si fa problemi a trascorrere “certe mezz’ore” con le altre donne del castello, ma è geloso marcio di Rosina e non sopporta l’idea che anche lei possa tradirlo. Mi è simpatico perché è umano, non è uno stereotipo che si innamora di un ritratto. Mi è simpatico perché alla fine riesce a venire a capo di tutti i suoi guai (che si è più o meno autoinflitto), capisce di aver sbagliato e chiede perdono. E cambia.
Ma andiamo con ordine. L’opera si apre con la famosa scena in cui Figaro, che qui è il servitore del Conte di Almaviva, prende le misure della camera che il suo padrone ha assegnato a lui e alla sua promessa sposa Susanna, cameriera della Contessa, per collocarvi il loro talamo. Susanna però è agitata e alle sempre più pressanti domande di Figaro confessa che il Conte si è preso per lei una bella scuffia e che, in cambio della dote di nozze, pretende di esercitare su di lei il diritto feudale. In altre parole: vuole portarsela a letto. Figaro, offeso, promette di fargliela pagare.
La trama dell’opera è molto più articolata di quella del Barbiere. Tutti i personaggi sono pieni e vivi, ognuno con i suoi intrighi e i suoi garbugli. Qui adesso vi racconto soltanto del Conte e di Rosina.
Rosina viene a sapere dalla stessa Susanna che il Conte non le è fedele. Lei però lo sospettava. Già da tempo non era felice della condotta del suo “moderno marito”, al tempo fedifrago e geloso. Dove sono andati i bei momenti? Che fine hanno fatto tutte le promesse e i giuramenti pronunciati da quelle labbra menzognere – che, nonostante ciò, lei ancora ama?  
Come farlo redimere? Rosina, riaccesa dall’antico fuoco di rivalsa, decise di tendergli un tranello insieme a Susanna. Quest’ultima gli dovrà far credere di cedere alle sue lusinghe e quindi di accettare di concedersi a lui.

Tra un sì e un no, un no e un sì, il Conte (qui Rod Gilfry) cerca di acciuffare la cameriera per accelerare i tempi e giubila al pensiero di farla sua, mentre Susanna si scosta e si scusa con tutti quelli che amano perché è costretta a mentire. Qualche scena più in là i due si accordano, grazie a un bigliettino, di trovarsi con il favore della notte in giardino e consolare lì le loro voglie.
Tutto è così disposto. Il Conte, convinto di avere un appuntamento hot con la tanto desiderata cameriera, all’ora stabilita si reca al luogo dell’incontro. Nel frattempo, però, Susanna e Rosina, per trarlo in inganno, si sono scambiate i vestiti e quella che, nella semioscurità, il Conte bacia avidamente non è Susanna, ma la sua stessa consorte che veste i panni della cameriera.

Il Conte però non riconosce le stranote mani e si meraviglia di quanto siano morbide le dita che crede sconosciute. Si eccita: il calore del corpo di una donna “nuova” riaccende tutto il suo ardore. Mi chiedo sempre come diamine faccia a non riconoscerla. Se non la forma delle mani, ma almeno l’odore della pelle, la voce… Le cose sono due: o è un marito molto distratto, o il testosterone gli ha dato completamente alla testa, obnubilandogli tutti i sensi. Chissà. La conclusione sembrerebbe essere che basta abbassare le luci e indossare gli abiti di un’altra persona per ravvivare il fuoco della passione di una vecchia coppia – ma non vogliamo essere così prosaici. Un rumore interrompe quello che ancora non si è consumato e i due amanti si separano per paura di essere scoperti.  

Chissà cosa avrà pensato Rosina vedendo l’amato consorte fare una corte sfrenata a quella che lui credeva essere Susanna. Chissà se avrà avuto dei rimpianti, se si sarà chiesta come sarebbe stata la sua vita se non si fosse lasciata ammaliare da Lindoro. Chissà se ha mai ripensato a Bartolo e al suo amore incondizionato per lei.
Nelle Nozze Bartolo sembra essersi in qualche modo consolato dalla “rottura” con Rosina. Dopo aver scoperto che Figaro è nientemeno che il figlio che lui, anni addietro, aveva concepito con Marcellina – la quale, prima di questa scoperta, aspirava a diventare la moglie di Figaro (allarme incesto) – decide (più o meno liberamente) di sposare quest’ultima. Se lui sarà davvero contento insieme a questa donna petulante non lo so, però troppo insoddisfatto non sembra. 
    

Ma torniamo ai nostri amanti in giardino. Li abbiano lasciati che si erano appena divisi perché avevano sentito un rumore. Il Conte spia dal suo nascondiglio chi gli aveva rotto le uova nel paniere e vede Figaro intento ad amoreggiare con – sua moglie Rosina. O almeno quella che lui pensa essere sua moglie. Si tratta invece di Susanna travestita da Rosina che mette in scena l’ultimo atto del piano escogitato con quest’ultima per dare una lezione al marito. Il Conte ci casca con tutte le scarpe e, pazzo di gelosia, corre come una furia verso la fedifraga coppia, la quale si nasconde in un antro. Pensando di cogliere in fallo Rosina, il Conte chiama i suoi uomini al suono di “Gente, gente! All’armi, all’armi!”. La gente si raduna e il Conte, pensando di esporre la coppia rea alla pubblica umiliazione, li strattona fuori dal loro nascondiglio.
Figaro e Susanna (sotto le spoglie della Contessa) chiedono perdono all’unisono, ma il Conte è irremovibile. “No, no, non sperarlo!”, continua a ripetere. L’offesa è troppo grave, l’onta con cui la moglie lo ha macchiato non può essere lavata con parole di perdono. Le rimprovera un tradimento che lui stesso era in procinto di compiere – se non fosse stato interrotto, appunto, da loro. Improvvisamente una voce proveniente dal fondo del palco fa ammutolire tutti. La Contessa, quella vera, compare quasi dal nulla come un fantasma. “Almeno io per loro perdono otterrò”, canta.
Il Conte la guarda e, dopo qualche lungo secondo di silenzio, si inginocchia e intona uno dei canti più commuoventi che io abbia sentito mai, con le sole parole: “Contessa, perdono”. 

Mi piace pensare che il Conte, quando vede comparire Rosina, si redima davvero. Mi piace pensarlo perché questo Andante fa vibrare tutte le corde del mio cuore e a mala pena, quando lo ascolto, riesco a trattenere le lacrime. Mi piace sognare che anche nella vita vera gli errori, le azioni che feriscono, si possano risolvere così. Con il perdono.
La Contessa accetta le scuse del Conte, lui le bacia la mano sotto lo sguardo commosso di tutti e il coro conclude: “Ah, tutti contenti saremo così”. Tutti contenti, come nelle favole.
Poi Allegro assai. Archi, flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe e timpani per il gran finale.
Questo giorno di tormenti,
di capricci e di follia,
in contenti e in allegria
solo Amor può terminar.
Sposi, amici, al ballo! Al gioco!
Alle mine date fuoco,
ed al suon di lieta marcia
corriam tutti a festeggiar!
 Anche Le nozze di Figaro si concludono, come il Barbiere, con uno sposalizio – addirittura doppio: quello di Susanna e Figaro e quello di Bartolo e Marcellina. Se Susanna sarà contenta, se rimpiangerà di non aver davvero ceduto alle lusinghe del Conte o di non avere scelto uno sposo più giovane e fervente come Cherubino (evidentemente i toy-boys erano in voga già allora) non ci è dato saperlo. Ma anche nelle favole questo non lo dicono – e tutte si concludono con un happy end.

martedì 28 novembre 2017

E Rosina poverina… (prima parte)


Sebbene siano state composte da due persone diverse, in due momenti diversi, il Barbiere di Siviglia di Rossini e Le nozze di Figaro di Mozart rappresentano due frammenti della stessa storia. Il Barbiere, la cui prima esecuzione è datata 1816, costituisce l’antecedente di quello che si svolge nel libretto di Da Ponte, messo in scena da Mozart nel 1786. Quando l’ho realizzato mi sono stupita. All’inizio pensavo fosse un caso che il protagonista delle due opere si chiamasse Figaro: concentrandomi più sulla musica che sulla storia non mi ero resa conto che anche gli altri personaggi fossero gli stessi. A giustificare la mia sbadataggine depone il fatto che i nomi e le funzioni dei protagonisti dell’una e dell’altra opera erano cambiati: nell’opera di Rossini, Figaro è il barbiere più in della città, nelle Nozze è presentato invece come il servitore del Conte di Almaviva. Il Conte delle Nozze si fa chiamare Lindoro nel Barbiere per essere sicuro che Rosina si innamori di lui e non dei suoi soldi o del suo titolo nobiliare. Nelle Nozze Rosina, che è già sposata con il Conte, è chiamata tutto il tempo Contessa di Almaviva. Solo una o due volte viene chiamata, di sfuggita, col suo nome, ma nella concitazione dei duetti e dei terzetti non è la prima cosa che salta all’occhio – o all’orecchio. Il dottor Bartolo, tutore autorevole ma goffo di Rosina nel Barbiere, nelle Nozze è solo una macchietta che, alla fine della fiera, si rivela essere il padre di Figaro e sposa la “vecchia” Marcellina, sua fiamma di gioventù. Nelle Nozze, poi, ci sono personaggi che nel Barbiere non compaiono: Susanna, la promessa sposa di Figaro, il paggio Cherubino e Barbarina – per citarne qualcuno. Sbadataggine la mia, ma parzialmente giustificata.
Rosina è un personaggio che mi piace e al quale mi sento molto vicina. Se non fosse che in tedesco il suo nome suona come Rosinen, ovvero uva passa, che trovo disgustosa, avrei quasi voluto chiamarmi così (per inciso: il mio nome, in inglese, suona come succoso, che tanto meglio non è). Rosina è testarda, cocciuta, impertinente (frech), finta arrendevole, ma allo stesso tempo sognatrice e un po’ ingenua – quadro che dipinge lei stessa nell’aria Una voce poco fa del Barbiere che posto qui nell’interpretazione della Callas, la mia preferita. “Io sono docile” dice “son rispettosa, sono obbediente, dolce e amorosa. Mi lascio reggere, mi fo guidar”. L’immagine della fanciulla sottomessa, che si rimette alla volontà dell’uomo, padre-padrone? Sembra di sì, ma… Ma Rosina continua (e il ma della Callas in quest’aria, al minuto 4:04, riflette tutta la Frechheit del personaggio): “Ma se mi toccano qua nel mio debole, sarò una vipera. E cento trappole, prima di cedere, farò giocar”.   

Che cosa succede? La storia ve la racconto seguendo la cronologia della narrazione e non l’ordine cronologico con cui le due opere sono state composte.
Nel Barbiere il Conte di Almaviva si innamora di Rosina, giovane pupilla del dottor Bartolo. Per conquistarla ricorre all’aiuto dello scaltro Figaro, il factotum della città – come lui stesso si definisce. Insieme a lui il Conte, che da questo momento in poi si farà chiamare Lindoro, elabora una serie di stratagemmi per riuscire a introdursi in casa del dottor Bartolo, dichiararsi all’amata e andare via insieme come marito e moglie. Le escogitano tutte: prima si traveste da soldato ubriaco, poi da insegnante di musica, sostituto di don Basilio. 

Sembra proprio innamorato pazzo. Malauguratamente per lui però anche Bartolo è innamorato della sua pupilla e già da tempo progetta di sposarla.
Il dottor Bartolo, a discapito dell’antipatia che Rosina prova nei suoi confronti, a me risulta simpatico e quasi quasi ho fatto il tifo per lui e non per Lindoro. Forse perché lui è un basso – e il mio debole per i bassi non è un mistero –, mentre Lindoro è un tenore. E dei tenori non mi fido. Forse perché il suo amore per Rosina si basa su una profonda conoscenza reciproca e non sul fascino dell’aspetto fisico di lei. Bartolo ama Rosina con tutti i suoi difetti. L’amerà Lindoro allo stesso modo, quando al mattino la vedrà spettinata e senza trucco? Riuscirà a tenere testa a quel caratterino? La risposta la dà Mozart nelle Nozze di Figaro, ma di questo parlerò dopo.
Il dottor Bartolo è un tenerone e per conquistare la simpatia della sua pupilla non si vergogna a rendersi ridicolo:

Questo però non significa che si faccia prendere in giro facilmente. Quando sospetta che la sua amata e Figaro stanno tramando qualcosa alle sue spalle fa valere la sua autorità – o almeno ci prova…
  
Un dottor della sua sorte non si lascia infinocchiar? Forse, ma Rosina è cocciuta. Adesso si è fissata che vuole scappare con l’affascinante Lindoro e chi può toglierle di testa quest’idea? Lei è giovane, Lindoro è bello. Anche lei si dichiara innamorata persa di un tipo che ha visto solo di sfuggita dal balcone. Un tenore per di più. Ma tant’è – vuole sentirsi libera, vuole sperimentare la vita, vuole fare come tutte le ragazze della sua età (Così fan tutte, appunto). Ne risulta il classico schema della commedia dell’arte: una coppia di innamorati, un “cattivo” che si oppone alla loro unione e un servo astuto che li aiuta ad averla vinta. Dopo tante peripezie e un immancabile equivoco finale, tipico della commedia, Rosina scopre che Lindoro è nientemeno che il Conte di Almaviva e i due riescono a sposarsi. 

 “Amore e fede eterna si vegga in voi regnar” conclude il coro, mentre il Conte e Rosina, bellissimi e raggianti, coronano il loro sogno (?) d’amore. Ma sarà davvero un “felice innesto”? Sarà contenta Rosina della sua scelta o avrà dei rimpianti? Il Conte si rivelerà essere quel giovane innamorato che le aveva fatto perdere la testa?


E il cervello poverello
già stordito sbalordito
non ragiona, si confonde,
si riduce ad impazzar.

Spoiler:


 

mercoledì 22 novembre 2017

Il sosia



Si dice che per ognuno di noi ci siano sette sosia sparsi per il mondo. Già i greci ci insegnano a non prestare fede a quello che “si dice” (λέγεταί δή), ma con quello che “si dice” anche i filosofi hanno creato miti e immagini, per gioco o per alludere a questioni più complesse. Non sono saggia, io, così con quello che si dice mi permetto solo di giocare.
Questa storia dei sette sosia, che è proprio una sciocchezza, mi è venuta in mente qualche mese fa quando, sulla strada dietro alla stazione della cittadina svizzera in cui ho studiato e vissuto, ho incontrato il sosia del mio ex.
Era già buio, ero appena uscita dall’università e stavo andando al supermercato della stazione perché tutti gli altri lì chiudevano già alle 18 (tasto dolente del mio soggiorno in svizzera) – quando ho visto delinearsi di fronte a me una figura molto familiare. Stessa età, stesso colore dei capelli, stessa corporatura e…stessa faccia. Per un attimo ho pensato davvero che fosse lui e mi è preso quasi un colpo: che cosa ci faceva lì? Sebbene l’università sia grande, la città è piccola come un paese e, per quanto carina, non ci sono attrazioni che stimolino il turismo internazionale: soltanto distese verdi e mucche, tantissime mucche. La sagoma si avvicinava e, sempre mezza convinta che fosse lui, mi domandavo che cosa gli fosse capitato: era vestito come un simil-punk-fricchettone, qualche ciocca di capelli rasta, un enorme zaino da vagabondo sulle spalle e cinque o sei sacchetti e sportine di plastica in mano. Solo quando era a pochi passi da me mi ho capito che non era lui, nonostante l’impressionante somiglianza. Devo avere avuto una strana espressione dipinta in volto perché lui, guardandomi, ha sorriso divertito. Quell’incontro è stato però molto fugace e mi sono detta che in fin dei conti la somiglianza non forse era così eclatante: c’era buio ed era probabile che mi fossi sbagliata.
L’altro ieri però sono tornata in Svizzera. Un po’ assonnata e un po’ persa nei miei pensieri mi preparavo a scendere dal treno, dopo un viaggio lunghino, cercando l’energia per mettermi al lavoro. Ero così sulle scalette, in procinto di abbandonare il vagone, e chi ho visto tra i passeggeri che, a pochi centimetri da me, aspettavano che si sgombrasse l’ingresso per salire? Il sosia. Questa volta era mattina, c’era il sole e non potevo sbagliarmi: era proprio uguale uguale. Adesso aveva tagliato via i rasta e aveva i capelli rasati da una parte, mettendo in mostra un paio di orecchini e un dilatatore per orecchie. Non ho resistito e, guardandolo, sono scoppiata a ridere. Sarò sembrata matta. Ha riso anche lui. Questo mi ha dato la conferma che si trattava di un’altra persona: l’originale sarebbe lungi dal volere condividere con me un sorriso. Ma tant’è. Il sosia mi ha dato l’impressione di aver fatto pace con una parte del mio passato.

mercoledì 15 novembre 2017

Quando il cielo è blu, prendi il cappotto!


In Germania una giornata di metà novembre con sole e cielo terso può significare solo una cosa: l’inverno è alle porte. L’ho imparato a mie spese la prima volta che sono andata a Berlino. Era fine dicembre di qualche anno fa, avevo trascorso le vacanze di Natale con la mia famiglia in Sicilia e avevo prenotato un volo diretto Catania-Berlino. Finalmente avrei visitato la capitale! Quell’inverno mediterraneo era particolarmente mite: nel mio paese dell’entroterra c’erano 15 gradi, a Palermo – dove vado ogni volta che posso perché è la città italiana in cui più mi sento a casa – 18 circa. Io avevo lasciato una Germania freddina, ma non freddissima, e facevo la sborona andando in giro senza cappotto davanti agli occhi allibiti di parenti e amici per i quali ero ormai diventata una tedesca a tutti gli effetti.
Il giorno della partenza sono andata all’aeroporto vestita a strati in previsione della Germania. Immaginavo che a Berlino ci sarebbe stato più freddo – non ero ingenua fino a questo punto. Sono arrivata che era già buio, tirava vento e pioveva. Ero però così eccitata di essere finalmente arrivata che sul momento non ho badato molto al tempo. Ho cenato e sono andata a dormire.
Sono stata svegliata, il giorno dopo, da un raggio di sole che filtrava allegro attraverso i vetri un po’ sporchi della mia camera. Mi sono alzata un po’ intontita, ho guardato fuori e non potevo credere ai miei occhi: un cielo azzurro e limpido così non c’era nemmeno in Sicilia – mi sono detta. Quale tempo migliore per la mia prima spedizione in città? Sono scesa di sotto, ho fatto una colazione frugale, mi sono lavata e preparata per uscire. Incoraggiata dal sole ho indossato (lo ricordo come se fosse successo stamani): un paio di collant pesanti, ma non di lana, una gonna di jeans, una maglia di misto acrilico con su una giacchetta senza ambizioni e un giubbino rosso imbottito ma corto. Niente guanti. Niente cappello. Stavo per lasciare la casa quando lei mi dice “Sei sicura di volere uscire così? Fa molto freddo oggi”. Le rivolgo un sorriso sghembo mentre penso: “Esagerata! Questi tedeschi pensano che solo perché vengo dal sud dell’Europa non sono in grado di sopportare il freddo teutonico. Vivo già da qualche annetto in Germania, non è il mio primo inverno qui”. Più per accontentarla che per tranquillizzarla porto con me anche una sciarpa. Appena fatto qualche passo sul vialetto davanti casa mi sono subito pentita del mio outfit, ma un po’ per orgoglio e un po’ perché avevo paura di perdere l’autobus mi sono decisa di non tornare a cambiarmi. Non credo di avere mai sentito freddo come quella giornata a Berlino: il gelo arrivava fino alle ossa, non avevo più la sensibilità nei piedi, che mi facevano male, non potevo tirare fuori le mani dalle tasche (e infatti ho fatto pochissime foto), ogni mio respiro produceva una nuvoletta di fumo, le orecchie erano diventate due ghiaccioli. Correvo da un museo a un bar e da un bar a un museo e quando finalmente la sera sono arrivata al teatro dell’opera mi sono lasciata cullare dal tepore della sala al punto che ho rischiato un paio di volte di addormentarmi – cosa che non mi succede mai quando ascolto l’opera. Non che non ci fossero e non ci sarebbero state giornate fredde nella mia vita (mi sono rotolata su metri di neve delle Alpi, ho visitato città più al nord, ci sono stati inverni più rigidi nei posti in cui ho abitato). Solo non me l’aspettavo. Il freddo mi ha presa in contropiede ingannandomi con un cielo blu e un sole gelido. Il cielo grigio, le nuvole basse e minacciose sono molto meno infidi di una giornata limpida in inverno qui.
Ho imparato così la lezione: se in Germania il cielo è terso, prendi il cappotto!

domenica 5 novembre 2017

Di nuovo in Germania


Avrei voluto concludere il capitolo della mia “avventura andalusa” raccontandovi di Granada e della magia dell’Alhambra, ma per quanto mi sforzassi di ricostruire le immagini, gli odori e le sensazioni provate in quel luogo, non riuscivo a trasformarle in soldatini neri e ordinati sullo sfondo bianco del mio file word. Non riuscivo a far rivivere il caldo umido dell’Andalusia con i 10 gradi piovigginosi dell’autunno tedesco.
Sono tornata in Germania.
La prima cosa che ho fatto al mio ritorno è stata ammalarmi. La stanchezza di un’estate da vagabonda mi si è riversata addosso non appena oltrepassato il confine. Ho trascorso così la prima settimana vegetando sul divano con febbre e mal di gola. Da nomade tornare sedentaria – difficile il passaggio.
A partire dalla seconda settimana ho esercitato tutti i lavori possibili meno che il mio. Ho fatto la traslocatrice, l’artigiana, la tappezziera (e con quale talento!), la montatrice di mobili e la parrucchiera. Un dottorato in filosofia e due braccia sottratte alla manovalanza – ha commentato la mia migliore amica. In tutto questo ho dovuto occuparmi anche di consegne, scadenze, Anmeldungen, scartoffie e tutte quelle cose da grandes personnes che fanno male alla fantasia.
Poi finalmente ho ritrovato la concentrazione di tornare al mio lavoro, al mio libro. Una volta alla settimana, invece, per guadagnare qualcosina in più e perché mi diverte, ho ripreso a insegnare italiano presso un conosciuto istituto nella città in cui vivo.
Cerco un equilibro nuovo, mi adatto a una situazione nuova a una fase di passaggio.
La temperatura si è abbassata ancora e anche il blu del cielo preannuncia l’arrivo di un inverno al quale non mi sento preparata. Ce la farò?

lunedì 25 settembre 2017

Avventura andalusa. Terza tappa: Málaga


A Málaga sono costretta a ridimensionare un po' le mie aspettative. È carina e c'è tanto da vedere: il museo di Picasso, la sua casa natale, la Cattedrale, il Castillo de Gibralfaro e l’Alcazaba – una fortezza araba costruita sulla base di una fortezza fenicio-punica – ma ho ancora davanti agli occhi i tesori di Siviglia e di Cordoba, quindi non riesco a stupirmi davanti alle bellezze di questa nuova città. Credo che l'Alcazaba mi avrebbe incantata se non avessi visitato prima l’Alcázar di Siviglia e la casa di Pilato; ­quindi se progettate un viaggio in Andalusia e avete intenzione di visitare anche Málaga vi consiglio di cominciare da qui e fare il percorso inverso. 


Sono già un po’ stanca dai giorni passati, trascorsi rimbalzando da una parte all’altra delle città che ho visitato, con la smania di voler vedere tutto, di non sprecare un istante. Ho i piedi doloranti e sono sfossata dal caldo umido della città marittima, così decido di rallentare il ritmo e trascorrere qui qualche pigra giornata da turista sfaticata.
La mia attuale “casa” è diversa dalle sistemazioni precedenti: per la prima volta da quando sono partita non “abito” in centro, ma in periferia – e le periferie delle città si assomigliano un po’ tutte: strade aperte al traffico, negozietti di frutta e verdura, supermercati, discount, negozi cinesi, estetiste, parrucchiere. Mi ricorda il quartiere in cui ho abitato lo scorso inverno ad Atene. L’appartamento in cui mi sono insediata è molto carino. Sembra una grande WG (in tedesco: Wohngemeinschaft, ovvero appartamento condiviso) con quattro camere, nelle quali soggiornano gli ospiti della struttura, due bagni (uno ogni due camere), un soggiorno, una cucina e due grandi terrazze. A me tocca una piccola camera con un letto a castello un po’ sfondato da una parte e un climatizzatore a gettoni. Nonostante non sia oggettivamente bella, questa camera ha un qualcosa che non so spiegare, che mi rassicura, mi accoglie e mi fa subito sentire a casa.
Condivido il bagno con una donna francese che non parla altra lingua all’infuori della sua (e sono molto contenta che il mio soggiorno in un’università francofona in Svizzera mi abbia resa capace di conversare anche in francese), e la cucina con una coppia cilena sulla sessantina che parla solo spagnolo. Nel mio spagnolo zoppicante trascorriamo a chiacchierare sulla terrazza più di una sera, consumando le nostre cene. Loro sono molto dolci e simpatici. Dopo pochi quarti d’ora insieme mi trattano quasi come fossi figlia loro: mi chiamano chica o mi corazón, lui mi spiega cosa fare e cosa non fare in città, in quale lido andare a fare il bagno, che autobus prendere. L’ultima sera si offre di prenotare per me (in spagnolo) un taxi per l’indomani per andare alla stazione dei bus, dalla quale sarei dovuta partire per Granada. Poi ci separiamo con grandi abbracci e molti auguri per il futuro e andiamo a dormire.
Anche la donna che gestisce l’appartamento, Graciela, è molto simpatica e anche lei parla solo spagnolo, al contrario di suo marito Jorge che conosce sia l’inglese che l’italiano. Graciela è una donna di quasi sessant’anni, molto dinamica e divertente. È con lei che faccio, per pochi euro, la prima manicure della mia vita in un piccolissimo salone di bellezza sotto casa (e credo che quello sia il posto in cui ho imparato più parole in spagnolo fin ora).
Qui a Málaga trascorro le giornate facendo lunghe e lente passeggiate nel centro città, facendo piccole soste in qualche negozietto e visitando, con molte pause, le attrazioni turistiche e i siti d’interesse. Ogni volta che scorgo una panchina all’ombra, mi ci fiondo e prendo posto per rifocillarmi dal caldo soffocante e dalla stanchezza. Scrivo lunghe cartoline e pagine del mio quaderno, cerco di imprimere i miei pensieri e le mie impressioni su carta, trasformare in inchiostro il groviglio di emozioni che mi attraversano mente e cuore.  


Per la prima volta dal mio arrivo in Spagna mi concedo dei pasti tranquilli e abbondanti, non più i pranzi frugali e improvvisati consumati all’interno  dell’Alcázar di Siviglia o sulla piazzetta davanti alla Mezquita di Cordoba: scopro un piccolo ristorante di tapas non lontano dal centro e divento cliente abituale. L’ultima sera del mio soggiorno a Málaga mangio finalmente la paella e mi chiedo perché non l’abbia fatto prima. Voglio infine sfatare un pregiudizio: non è vero che in Spagna il gelato è cattivo. Prima di partire, una conoscente mi aveva messa in guardia: “Non prendere il gelato lì”, mi aveva detto, “se hai fortuna non sa di nulla, se non hai fortuna è disgustoso”. Evidentemente ho avuto più che fortuna, perché a Málaga ho mangiato un gelato buonissimo (la gelateria si chiama Nonna, se può interessarvi).
Non sono riuscita a vedere uno spettacolo di flamenco come si deve, ma in compenso ho comprato un paio di scarpette: ho intenzione di tornare a ballare. Porterò almeno un po' di Spagna con me nell'inverno freddo che mi aspetta. 

Ormai il mio soggiorno qui sta volgendo al termine. Domani sveglia alle 5:00. Alle 6:30 parte l’autobus che mi porterà nell’ultima sognata tappa di questa avventura: l’Alhambra di Granada.

martedì 19 settembre 2017

Avventura andalusa. Seconda tappa: Cordoba



È tempo di lasciare Siviglia. A malincuore rimetto nello zaino i libri, la mia (non sempre affidabile) guida crucca dell’Andalusia, le cartoline, un paio di regalini, i miei pochi indumenti e guardo per l’ultima volta la camera che per qualche giorno ho chiamato “casa”, suscitando l’ilarità e talvolta la simpatia dei miei interlocutori. Dopo aver accertato (a quanto pare anche la fisiognomica lo conferma) e accettato la mia condizione di straniera ovunque, mi sono arrogata il diritto di sentirmi a casa dappertutto, chiamando casa tutti i luoghi in cui mi sono insediata, in cui mi sono sentita bene. E a Siviglia mi sono sentita a casa.
Per una nomade, però, nessuna casa è definitiva, così raccolgo zaino e ricordi e mi dirigo alla stazione del bus. Prossima tappa: Cordoba.
Prendo posto sull’autobus spazioso. L’autista, dopo aver controllato i biglietti, accoglie ogni passeggero porgendogli un sacchetto di carta contenente: uno snack, una bottiglietta d’acqua e un paio di auricolari. Il lusso. Non mi era mai capitato di vedere un bus così chic: comodo e lindo, sedili in pelle reclinabili con poggiapiedi regolabile, piccolo schermo davanti a ogni sedile per guardare un film o ascoltare della musica – altro che gli autobus della compagnia verde risparmio che prendevo abitualmente per andare in Svizzera (con il wc rotto e puzzolente e i sedili squinternati)!
Rinuncio tuttavia a una fetta di questo lusso decidendo di ignorare lo schermo, indosso le cuffiette del mio inseparabile lettore mp3 e mi accomiato da Siviglia ascoltando ancora una volta Il Barbiere, che è la colonna sonora di questo mio viaggio.
Il paesaggio che scorre davanti ai miei occhi non è dissimile da quello che vedo dall’autobus che, in Sicilia, dall’aeroporto di Palermo mi porta alla stazione del mio paese, tanto che per un attimo, in uno stato di sonnolenza, mi sembra di vedere il profilo delle sue stranote case. Trasalisco. Poi mi ricordo di essere in Spagna e mi lascio cullare dal rumore del motore.
Guardando la cartina dell’Andalusia non mi ero resa conto di quanto fossero grandi le distanze tra una città e un’altra. O meglio: non potevo rendermi conto di quanto sembrassero grandi tali distanze, dal momento che sulla cartina non si vede che tra un centro abitato e l’altro non c’è niente – all’infuori di distese a perdita d’occhio di terra bruna e di campi bruciati dal sole. Dopo qualche ora di viaggio e qualche quarto d’ora di sonno faccio finalmente la conoscenza di Cordoba, la città dei Califfi, di Averroè e di Maimonide. Ad accogliermi ci sono 40 gradi e un sole che, nonostante siano appena le 10.30 del mattino, picchia e brucia e intimorisce i turisti più biondi che iniziano a ungersi di creme solari dall’odore pungente.
Dopo una piccola sosta in un bar, nel quale faccio colazione con pane e pomodoro e un zumo de naranja por favor, mi dirigo alla Mezquita, letteralmente il “luogo dove prostrarsi”, oggi nota come Grande Moschea o Moschea-Cattedrale. 

Non credo di avere mai visto nulla di più impressionante. Entro in quella che, a prima vista, mi sembra un’immensa moschea (al già imponente edificio originario, progettato dall’emiro Abd al-Raḥmān I, sono stati aggiunti tre grandi ampliamenti commissionati da ʿAbd al-Raḥmān II prima e da al-Ḥakam II dopo). Cammino tra arcate e colonne, per colore e forma tipiche dell’architettura islamica. I cunei bianchi e rossi e la ripetizione ritmica dei capitelli mi danno l’impressione che lo spazio si dilati all’infinito e che i confini siano irraggiungibili. 
 Ma proprio quando il mondo arabo mi ha rapita al mio e ho l’impressione di trovarmi non in Spagna ma in un racconto delle Mille e una notte, ecco che vedo una croce, un altare cattolico, una raffigurazione dell’ultima cena, la statua di un santo, quella della Madonna. Disorienta continuo a camminare fino a quando, improvvisamente, mi trovo sotto la cupola bianca e dorata della Cattedrale barocca. Lo stupore. L’incredulità. 

Con questo video vi mostrerò il percorso inverso, che vi porterà dalla Cattedrale fino all’ampliamento di Al-Hakam II, con le sue arcate polilobate e il dorato Mihrab, punto di riferimento per la preghiera dei musulmani: una nicchia a otto lati, delimitata da archi che rappresentano le porte per l’aldilà, attraverso le quali dovevano ascendere le preghiere dei fedeli, la quale termina in una cupola a conchiglia, simbolo della vita.

Questa insolita mescolanza di religioni e influenze, che oggi forse ci stupisce, sta invece alla base della cultura andalusa, luogo in cui hanno convissuto – ora in pace, ora in reciproca tolleranza, ora in guerra – religioni e culture diverse: si tratta infatti di un Paese dominato dapprima dal Califfato arabo-islamico e successivamente conquistato dall’estremo cattolicesimo europeo (non per niente Cordoba era sede di uno dei tribunali speciali dell’Inquisizione).

Tale convivenza di culture e religioni è testimoniata anche dalla presenza di un quartiere ebraico, la Juderia, ovvero l’antico ghetto abitato dagli ebrei fino a quando i Re Cattolici, nel XV secolo, li espulsero dalla città. È più grande della Juderia di Siviglia e in essa si trova anche una Sinagoga che dicono essere molto bella – cosa che purtroppo non ho potuto verificare con i miei occhi perché in estate tutti i principali siti di interesse a Cordoba (la Sinagoga, l’Alcázar e Museo Taurino – che pure non mi interessava) chiudono alle tre del pomeriggio. Continuo a passeggiare così perdendomi nelle stradine della Juderia, immaginando un tempo senza turisti in cui, in questi vicoli, in mezzo a queste case imbiancate a calce, filosofi arabi e pensatori ebrei hanno partorito e messo per iscritto le loro idee. Passo sognante attraverso la via dedicata ad Averroè. 


Senza accorgermene arrivo infine in Plaza de Tiberiades e mi imbatto in una figura familiare: si tratta della statua di Mosè Maimonide, autore della Guida dei perplessi, che avevo studiato durante il mio ultimo anno di università a Palermo e che mi aveva tanto impressionata. E siccome perplessa lo sono tutt’ora – e forse ancora più che in passato – tocco la punta della sua scarpa e intrattengo con lui una conversazione silenziosa e confidenziale.

Chissà, forse il tocco di quella scarpa renderà un po’ più saggia anche me.





mercoledì 13 settembre 2017

Avventura andalusa: straniera, una forma di vita


Mentre mangio una tapa nel locale affollato di una strada non lontana da “casa mia” qui a Siviglia, sento il suo sguardo su di me. Corrugo la fronte con espressione interrogativa e un po’ di disagio: non mi piace quando qualcuno mi fissa. “Ho qualcosa che non va?” chiedo, immaginando di avere qualcosa tra i denti. “No, è solo che hai un volto interessante”.
Interessante lo si dice anche davanti di un’opera d’arte astratta di dubbio gusto. Glielo faccio presente.
“Non mi fraintendere, è un complimento” continua “hai i lineamenti da gitana – come Esmeralda del Gobbo di Notre-Dame”.
“Una zingara allora?”, rido.
“Una nomade” conclude. 

Una nomade, è vero. Non ha sbagliato questa persona che mi conosce appena. Che mi sia scritto in faccia il mio destino?
Mi viene in mente il frammento di un dialogo del poco conosciuto filosofo socratico Fedone, Zopiro. In questo dialogo il fisionomista Zopiro, dopo aver osservato attentamente i tratti del volto di Socrate, dichiara che il suo aspetto esteriore farebbe pensare a una natura intellettualmente limitata e incline ai vizi. Gli amici di Socrate ridono: questo fisionomista deve essere un incompetente o un ciarlatano! Come fa a dire che Socrate, maestro di virtù e di temperanza, sia ottuso e vizioso? Solo Socrate non ride e anzi guarda Zopiro con divertita ammirazione. “Ci hai visto giusto, caro Zopiro, ti faccio i miei complimenti”. Gli amici di Socrate improvvisamente smettono di ridere e guardano increduli prima Socrate, poi Zopiro e poi di nuovo Socrate. Cosa sta dicendo? È impazzito? Socrate aggiunge: “Quello che dici su di me è vero, ma io sono riuscito a domare la mia natura viziosa attraverso il logos”.
Che cosa avrebbe detto Zopiro di me? Una persona che mi conosce da tre giorni ha visto una nomade nei tratti del mio viso –­ forse era scritto già lì il mio destino, anche quando abitavo in un piccolo paese dell’entroterra siciliano e non conoscevo altra lingua all’infuori della mia e del mio dialetto, anche quando non avevo ancora oltrepassato i confini nazionali e a malapena quelli ragionali. Nomade.
Forse Socrate mi direbbe che ciò che i tratti somatici rivelano si può cambiare, educare, domare. Ma in fondo non mi dispiace essere nomade.
Straniera dappertutto e dappertutto a casa. 


lunedì 11 settembre 2017

Avventura andalusa. Prima tappa: Sevilla


Il viaggio che mi ha condotta in Spagna mi ha fatto attraversare non soltanto tre nazioni in tre giorni, ma anche tre stagioni: ho lasciato un clima d’inizio inverno sulle montagne dei Grigioni, sono passata attraverso un autunno piovigginoso milanese per giungere alla bollente estate spagnola, con i suoi 38 gradi. Sotto il sole ancora rovente del tramonto che tinge di arancione le facciate degli edifici bianchi e l’odore di cavallo che invade le narici dei passanti e dei turisti sulla piazza della Cattedrale di Siviglia inizia la mia avventura andalusa.
La Spagna mi sorprende subito per la sua organizzazione. Nel mio immaginario era un posto un po’ caotico, non troppo dissimile dall’Italia. Credevo che, come nel mio paese d’origine, i mezzi di trasporto fossero sempre in ritardo (sia a Palermo che in alcune zone di Milano – soprattutto in estate – bisognava affidarsi a un oracolo per sapere quando il bus sarebbe passato e ringraziare tutti i santi se il bus si decideva davvero a passare), che le persone fossero pigre e le strade un po’ sporche. Come in Italia. Quel mio lui, del resto, quando eravamo insieme, diceva sempre tutto il male possibile degli spagnoli, dipingendoli come svogliati e ottusi. Io non ero mai stata in Spagna e di spagnoli non ne conoscevo. Così, senza rendermene conto, avevo lasciato che nella mia testa si corroborasse un cliché di cui, fino ad ora, non mi ero nemmeno curata troppo.
Svolta.
Già dal primo giorno in Andalusia mi rendo conto che l’Italia è assai più indietro rispetto alla Spagna – e che di simile hanno solo la lingua e quella disinvoltura dei modi della gente tipica dei paesi mediterranei. Punto.
Tutti i bus in orario, città molto organizzate (a misura di pedone e a prova di turista – anche del più imbranato come me, che ho il senso dell’orientamento di un lombrico ubriaco) e strade linde. Mi stupiscono gli impiegati sprint della nettezza urbana che, dopo l’una di notte, scorrazzano per la città con i loro camioncini, si fiondano (letteralmente!) sui bidoni dell’immondizia, li ripuliscono procedendo a una velocità impressionante, mentre i loro colleghi inondano le strade di acqua insaponata e le spazzano. Altro che pigrizia! 4 a 0 per la Spagna – e non solo nei Mondiali di calcio.
Il mio viaggio alla scoperta dell’Andalusia inizia qui a Siviglia e mi porterà a Malaga passando per Cordoba per giungere (finalmente!) all’Alhambra di Granada. 

Per me Siviglia è un sogno. È la città che ha ispirato grandi (e meno grandi, ma pur sempre importanti) compositori, che l’hanno scelta come teatro delle loro opere. È la città delle Nozze di Figaro di Mozart, del Barbiere di Siviglia di Rossini e della Carmen di Bizet, criticato in maniera così sottilmente ironica da Nietzsche in Der Fall Wagner, ma a cui voglio bene, trattandosi della prima opera che io abbia mai visto dal vivo ­ e addirittura alla Scala di Milano!

In questa città quasi a ogni passo mi imbatto in uno dei posti dell’opera. 
Mi entusiasmo quando scopro che a due passi dal posto che per pochi giorni chiamerò “casa” c’è il balcone di Rosina del Barbiere

Il balcone sotto cui Lindoro (pseudonimo usato dal Conte di Almaviva) le aveva cantato una serenata, aveva pregato Figaro di aiutarlo ad escogitare degli stratagemmi per potersi intrufolare in casa del dottor Bartolo e rivelare a Rosina i suoi sentimenti, nella speranza di essere ricambiato e andare via con lei come marito e moglie. 
Torno lì una sera, prima di ritirarmi nella mia stanzetta, mi siedo sugli scalini di pietra ancora caldi del sole del giorno, nonostante sia già buio, metto gli auricolari del mio lettore mp3 e mentre ascolto l'aria di Lindoro Se il mio nome saper voi bramate inizio a fantasticare. 


Il giorno seguente decido di andare alla ricerca del vero barbiere di Siviglia – o per meglio dire di un barbiere vero a Siviglia ­ e lo stano in un salone di Calle Sierpes. Con un po’ di imbarazzo gli chiedo, nel mio spagnolo traballante, di lasciarsi fotografare e gli spiego perché. Lui è divertito e mi lascia fare. Scambiamo ancora qualche parola e lo prego di non svelarmi il suo vero nome: per me resterà così Figaro, il barbiere di Siviglia. 
 

Nella Juderia trovo il posto in cui Carmen scappa inseguita dai soldati e poco più avanti la strada nella quale si trovava la taverna in cui incontra Don José ed Escamillo.  
Mi imbatto in luoghi dell’opera persino quando sto cercando qualcos’altro. Quando, nonostante le tante indicazioni stradali, mi perdo per le strade della città finendo dalla parte opposta del posto che volevo raggiungere (l’ho detto: lombrico ubriaco), vedo un palazzo imponente e bellissimo e mi chiedo che cosa possa essere. Ipotizzo che si tratti non meno di un palazzo reale.  





Mi avvicino, allora, sperando che un qualche cartello informativo mi sveli l’arcano. L’organizzata Spagna anche stavolta non mi delude e di nuovo mi stupisce: è un’ex fabbrica di tabacco – quella stessa fabbrica in cui è ambientata la Carmen – oggi sede della facoltà di Lettere e Filosofia dell'università di Siviglia.

Insomma, pur non essendo andata all’Opera, qui l’Opera la vivo davvero.  

L’avventura però è appena cominciata: da domani mi metterò sulle tracce dei filosofi arabi e dei sultani delle mille e una notte, alla scoperta dei luoghi che hanno visto convivere – in pace e in guerra – tre culture e religioni. Dall’Alcázar di Siviglia all’Alhambra di Granada.