mercoledì 31 maggio 2017

Tempo di addii


Non ho mai avuto una grande comprensione per gli italiani che, all’estero, hanno esclusivamente amici italiani, rifiutano di imparare la lingua locale o di parlare quantomeno una lingua franca e criticano costantemente il paese straniero che li ospita, decantando invece, per contrasto, tutte le qualità del Belpaese e, naturalmente, degli stessi italiani. Certo anche io ho amici italiani e non disdegno affatto di intrattenermi con qualcuno nella mia madre lingua (anzi: quando la “nostalgia di casa”, Heimweh, si fa più forte, sento proprio la necessità di parlare in italiano con qualcuno); ma ogni volta che mi sono impiantata in un Paese nuovo ho avuto voglia di fare amicizia (o almeno provarci!) con gli indigeni – e non per mera curiosità antropologica – di imparare la lingua, di immergermi nei nuovi colori, profumi e suoni (sarà forse autosuggestione, ma adesso mi sembra di riconoscere, guardando il colore e “l’altezza” del cielo, se mi trovo in Sicilia, in Lombardia, in Elvetia o in Alemagna). Non ho mai capito, così, gli italiani che, all’estero, riproducono una piccola Italia molto esclusiva, un gruppo chiuso e sigillato ermeticamente che non lascia entrare niente e nessuno che sappia di straniero.
Non li ho mai capiti fino ad ora, nel momento degli addii. Adesso che il mio tempo tra le Alpi sta volgendo al termine mi dico che sarebbe stato più facile se avessi fatto anch’io così, se mi fossi chiusa dentro e avessi disprezzato l’estraneo, crogiolandomi nella nostalgia di “casa” (che poi, che cosa e dove sia la mia casa, a dirla tutta, non lo so neppure io). E invece mi sono aperta a tutto: cose, persone, paesaggi, gesti – ho imparato ad amarli, li ho fatti entrare nel cuore. E adesso fa male dire: “Teniamoci in contatto” o “Tanto ci rivedremo presto”, mentre so bene che dietro queste frasi quasi sempre si nasconde un lapidario “Addio”, fa male mettere via tutte le mie cose dalla “mia” scrivania, che tra pochi mesi sarà occupata da un’altra persona e che non avrà più niente di me, dare indietro le chiavi, lasciare la finestra dalla quale facevo viaggiare lo sguardo, lasciare il sapore dell’aria e quello dei sogni. Oggi la mia amica svizzera mi ha detto: “Non preoccuparti: si chiude una porta e se ne apre un’altra”, in Italia si dice: “Se si chiude una porta si apre un portone” – anche se mi sono sempre chiesta perché la chiusura di una porta piccola comporti l’apertura di una più grande o perché un portone debba essere preferibile a una porta. Tant’è. Ripenso a tutte le volte che mi sono lasciata alle spalle qualcosa e cerco di aguzzare lo sguardo e scrutare l’orizzonte nel tentativo di scorgere un indizio, di anticipare il destino. Mi accorgo che in me (anche adesso come in passato) la curiosità vince la paura dell’ignoto. Così chiudo piano piano questa porta nell’attesa che si apra il famoso portone (o porticina, o porta a soffietto, o finestra, o, chissà, saracinesca) che mi faccia entrare nel futuro.  

sabato 27 maggio 2017

Le nozze di Figaro o le note della mia vita


È arrivato un nuovo dottorando nel nostro gruppo di ricerca. Un ragazzo dell’est, scuro di capelli e basso di statura, dall’aspetto serio, ma dalle risposte sarcastiche e i modi un po’ retrò. È arrivato, quindi, e io, con italico spirito di pronta accoglienza, lo invito a mangiare in mensa insieme. La conversazione fatica ad ingranare: sembra che non abbiamo molto in comune – nemmeno l’approccio alla filosofia, di cui entrambi ci occupiamo. Quando, a un certo punto, mi dice di essere un amante dell’opera. Quale gioia! Non solo riesco a intavolare una discussione, ma lui si dimostra un interlocutore spigliato e piacevole. A un certo punto mi chiede: “Qual è la tua opera preferita?”. Questa è una domanda che di solito non mi piace. Suona un po’ come: “Qual è il tuo piatto preferito?”, alla quale di solito rispondo banalmente “Tutto ciò che non contenga uvetta o cannella” (la cannella: il mio incubo stagionale nel periodo natalizio teutonico).
“Qual è la tua opera preferita?” – e mi sento rispondere senza esitazione Le nozze di Figaro.
Dopo qualche altro scambio di battute ci lasciamo e io mi metto a riflettere.
In effetti Le nozze di Figaro sono le note che mi hanno accompagnata ogni giorno in questi ultimi due anni. Non dimenticherò mai quando, nel 2015, mi sono trasferita, dalla Germania, in questa piccola città con una grande università, circondata dalle Alpi. Era settembre, ero un po’ ammalata e non sapevo che cosa mi aspettasse. Avevo paura di perdere quella sensazione calda di “sentirsi a casa” che avevo tanto faticato per raggiungere in Germania, paura di sentirmi di nuovo completamente straniera, sola in un paese di cui non conoscevo la lingua, avevo paura di non essere più abituata alla WG-Leben, ovvero alla vita da studenti in un appartamento condiviso, avevo qualche pregiudizio sugli svizzeri e sul loro modo di (non) rapportarsi con la gente e temevo che mi sarei sentita sola e in trappola, circondata da queste imponenti mura innevate.
Così, zaino in spalla e auricolari nelle orecchie, mi incamminavo a passo veloce lungo la strada principale, alla fine della quale mi aspettava la mia nuova casa, che non avevo ancora mai visto. Passai accanto alla pizzeria “San Marco” (in cui peraltro non ho mai mangiato, nonostante sia uno dei miei primi ricordi in questa parte della Svizzera). Ricordo esattamente che pensai che in ogni città del mondo, probabilmente, c’è una pizzeria chiamata “San Marco” (o “Bella Italia” o “Sole mio”), in cui probabilmente non lavorano nemmeno italiani. Sarei potuta essere ovunque.

Mi colpì il fatto che, sebbene fosse una bella giornata di sole e sebbene fosse quasi ora di pranzo, c’era pochissima gente sulla strada principale.

Mi colpì il fatto che tutti gli edifici intorno a me fossero grigiognoli, tanto che neppure il sole riusciva conferire alla città sembianze allegre: il grigio si mangiava il sole e inghiottiva tutte le case, le scuole, le chiese, i marciapiedi, le piazze, le insegne e i lampioni.

Continuavo a camminare e la strada mi sembrava interminabile, così mi abbandonai alla musica. Ascoltavo il finale del secondo atto delle Nozze e pensavo: “Comunque vada, qualsiasi cosa accada, Susanna farà scappare il paggio rinchiuso nel gabinetto e lei e Figaro riusciranno a imbrogliare il Conte”. Allora successe una cosa: più mi abbandonavo alla musica, più mi sembrava che la musica non solo si impossessasse di me, ma anche di tutta la città, spazzasse via il grigiore avvolgendo con un’aura magica tutto quello che, al primo sguardo, mi era sembrato scarno e banale.   




Così iniziò questa mia avventura in terra elvetica. Con il duetto Via, resti servita madama brillante percorrevo a passo svelto la grande e lunga strada fino all’università, sorridendo alla gente seria che ogni tanto (con mia sorpresa) smetteva di essere seria e ricambiava il sorriso; giunta davanti la porta dell’università, se nessuno guardava, aprivo con gesto plateale la porta automatica e il pubblico, nel mio lettore mp3, rispondeva con uno scroscio di applausi; di buon umore andavo su per le scale, entravo nel mio ufficio e davo inizio alla giornata tra Platone, parole battute sulla tastiera del mio computer e versi di Montale recitati a mente. Così trascorrevano le mie giornate e piano piano ho imparato ad amare questo posto: alcuni pregiudizi, è vero, ho dovuto confermarli, ma altri si sono rivelati dei semplici cliché. Dopo qualche mese la mia amica (svizzera tedesca) canticchiava cinque, dieci,venti, trenta, trentasei, quarantatré e nel nostro ufficio risuonavano le note di Mozart, Verdi ed Händel, quando i prof. non c’erano. Per montagne e per valloni, cantava Figaro mentre il mio bus si spingeva oltre le Alpi, durante il mio viaggio-Odissea per Milano, dove tenni una conferenza (Cherubino alla vittoria, alla gloria militar!). Quante lacrime, durate il primo inverno, ascoltando Dove sono i bei momenti?, sognando (e sperando) che il Conte si inginocchiasse anche davanti a me chiedendo perdono – ma non accadde. 

 Stare, in un giorno qualunque, sdraiati sul tappeto e ascoltare il finale e commuoversi. E la mia segreta passione per la voce da basso e l’interpretazione di Rod Gilfry (Mora, mora!).

 
 Ogni vittoria, sconfitta, paura, gioia sono state accompagnate dalle Nozze di Figaro, le note della mia vita. E adesso? Adesso il mio tempo qui sta giungendo a termine. Non so cosa mi aspetta nel futuro, non so da quale finestra potrò far tuffare e perdere il mio sguardo, non so quale idioma dovrò decifrare (imparare? amare?). Ci sarà ancora Figaro nella mia testa o saranno altre note a guidare i miei passi? Non lo so e, ve lo confesso, ho un po’ di paura. Ma è la curiosità a prevalere e sono pronta per affrontare, armata di musica, le sorprese a cui andrò incontro durante questa marcia.

mercoledì 24 maggio 2017

Happy birthday to me


La sveglia suona alle 7:15. Apro gli occhi e mi tocco il volto. È ancora tutto come lo avevo lasciato ieri: occhi, naso, bocca, orecchie, tutto a posto. Mi alzo, allora, e vado davanti allo specchio. Anche la me stessa riflessa sulla superficie mi conferma che apparentemente nulla è cambiato: la mia pelle è quella di ieri, nessuna ruga in più, niente zampe di gallina intorno agli occhi ancora pieni di sonno. A quei pochi capelli bianchi, che popolano la mia chioma già dal mio 21 anno di vita, sembrano non essersene aggiunti altri. Tutto come prima, dunque. Del resto non è ancora questo l’anno in cui completerò il primo ventennio della mia esistenza. Appurato che io sia ancora la io di sempre, sono pronta per affrontare il mondo. La sensazione che in questo preciso giorno dell’anno qualcosa di sorprendente debba accadere è legata, credo, alla mia infanzia.


Da piccola ero convinta che il giorno del mio compleanno fosse una specie di festa nazionale: venivo festeggiata, con grande entusiasmo, innumerevoli volte da parenti ed amici: la mattina, a scuola, mia mamma portava una torta, rubando, con grande felicità dei piccoli discepoli, qualche minuto alla lezione di italiano o di matematica; in tavola, per pranzo, c’era il mio piatto preferito; ancora una torta a casa dei nonni materni; una piccola festa nel salotto di casa con una ventina di ragazzini urlanti, tra bambini del vicinato e compagni di scuola; la domenica seguente ancora una torta a casa dei nonni paterni, nel paese di mio papà.
Già qualche giorno prima dell’evento mia mamma mi coinvolgeva nei preparativi della festa in salotto: gonfiavamo insieme un sacco di palloncini colorati con i quali riempivamo la stanza, allora ancora completamente vuota. Facevamo la lista degli invitati, andavamo in pasticceria a scegliere la torta. Che gioia! Maggio era senz’altro il mio mese preferito.
Accoglievo quei festeggiamenti con curiosità ed eccitazione e mi dicevo che doveva trattarsi senz’altro di un giorno eccezionale, dal momento che tutti intorno a me si prodigavano coì tanto per la riuscita della festa. Anche il tempo ci metteva del suo: il sole si faceva più caldo, sbocciavano i fiori, le giornate diventavano lunghe e si poteva andare in bicicletta o giocare in cortile fino a sera. Ad alimentare l’illusione che fosse un giorno particolare c’erano anche i fuochi d’artificio che, nel mio piccolo paese, rischiaravano il cielo notturno di ogni 24 maggio. Mio papà mi disse una volta che quell’esplosione di colori e luccichii fosse per me – e io per qualche anno ci credetti.
Ovviamente non era così: il giorno del mio compleanno, nel mio paese dell’entroterra siciliano, coincide con una festa religiosa molto sentita, che si concludeva sempre con dei fuochi d’artificio. Non so se sia ancora così, sono via ormai da tanto tempo. Ricordo però che fui molto delusa quando, crescendo, scoprii che il mio compleanno non fosse una festa nazionale, ma un giorno come tanti, che, nel corso della mia vita da adulta, molti avrebbero dimenticato e che avrebbe segnato soltanto una cifra in più sul mio contatore biologico. Tuttavia mi adattai presto, nemmeno troppo a malincuore, a questa realtà.
Ma devo confessare che, ogni 24 maggio, c’è ancora una piccola parte di me in trepida attesa di qualcosa, che aspetta che la scintilla di magia si manifesti. C’è la sensazione che in questo giorno qualche cosa accadrà, fosse anche insignificante agli occhi degli altri. Così, anche oggi, apro la finestra e porgo la guancia al sole di maggio, che non ha mai smesso di festeggiarmi, e faccio correre lo sguardo sui tetti delle case, cercando di stanare la magia da tutti i suoi nascondigli e le sorrido piena di curiosità.

sabato 20 maggio 2017

La moglie di Dante



Non tutti sanno che il nome della moglie del famoso poeta fiorentino fosse Gemma Donati. Sì, al nome di Dante è associato sempre quello di Beatrice: la sua passione di giovinezza, la musa ispiratrice della sua produzione letteraria, la donna-angelo che lo guida nel Paradiso della Commedia. Tutto molto bello, tutto molto poetico, ma di tutto questo cosa ne pensava sua moglie?
Immaginiamo per un attimo di essere la moglie di Dante e di vederlo tutto il giorno al lavoro, chino sulle sue carte a scrivere di chi? Di un’altra donna – e che donna poi! Sguardo innocente, sorriso angelico, capelli folti e morbidi, fisico da urlo… A questa donna, quindi, nostro marito rivolge tutti i suoi pensieri e il suo ardore (poetico e non). Non impazziremmo di gelosia?
Già mi immagino la scena: Gemma ha preparato la cena che Dante sta mangiando distrattamente mentre rilegge la seconda canzone del suo Convivio. La moglie cerca di raccontargli qualcosa, ma lui risponde con mugugni e borbottii disinteressati e non stacca gli occhi dai suoi versi, ai quali riserva un mezzo sorriso di soddisfazione (o autocompiacimento). A un certo punto Gemma si alza, va verso di lui, gli strappa i fogli dalle mani e gli urla: “Dante, sei impossibile! Non mi ascolti mai e stai sempre a rimuginare su queste dannate carte!” poi inizia a leggere il frutto di tanto lavoro, tempo e passione del marito: 

Amor che ne la mente mi ragiona
de la mia donna disiosamente,
move cose di lei meco sovente,
che lo ’ntelletto sovr’esse disvia.
Lo suo parlar sì dolcemente sona,
che l’anima ch’ascolta e che lo sente
dice: “Oh me lassa! ch’io non son possente
di dir quel ch’odo de la donna mia!”

Dalla rabbia diventa paonazza e urla: “Beatrice! Sempre questa Beatrice! Non riesci proprio a togliertela dalla testa! Beatrice nella Commedia, Beatrice nel Convivio… E per me? Io che ti preparo sempre pranzo e cena, che stiro le tue toghe e ascolto le tue paturnie… per me nemmeno mezzo verso?! Insomma, son forse la figlia di nessuno?”. Dante abbassa gli occhi un po’ imbarazzato, si confonde, inizia a balbettare: “Ma… ma… Gemma, amore mio, cerca di capire…”. “No, non c’è niente da capire, Dante! Non ce la faccio più, voglio il divorzio!”. “Gemma, ti prego, cerca di ragionare… lasciami spiegare”. Gemma lo guarda, ancora rossa in volto, con gli occhi sgranati, rossi e lucidi, fuori dalle orbite, le mani strette a pungo, tremante di rabbia. Ma lo lascia continuare. “Gemma, luce dei miei occhi, lascia che ti spieghi: Beatrice nei miei versi non è che un’allusione! Non è di lei che parlo, il nome di Beatrice è soltanto un’allegoria per indicare la filosofia, è la filosofia, non lei, che amo!”. Finito di parlare la guarda un po’ dubitante, se la sarà bevuta? Gemma sospira, rassegnata, e va in cucina. Come no, la filosofia. Anche Dante sospira: per questa volta l’ha scampata bella. Però, per sicurezza, decide di scrivere un commento per ogni canzone del Convivio: “Meglio ribadirlo anche lì che Beatrice è stata solo una cotta da adolescente e che ora è la filosofia il mio amore più ardente. Ottima scusa. Meglio mettersi al sicuro, non si sa mai, la furia delle mogli…”

venerdì 19 maggio 2017

Perdersi e trovarsi


Lui sta leggendo sulla sua poltrona e io, da incorreggibile Quälgeist quale sono, gli faccio: “Cosa stai leggendo? Non vogliamo fare piuttosto qualcosa insieme? Guardiamo un film?”. Lui, senza sollevare gli occhi dal libro borbotta: “Sto leggendo”. E io: “Forse posso leggerti io qualcosa? Dai, scegliamo un libro!”. Lui, continuando la sua lettura: “Lasciami leggere”. Io mi alzo, mi guardo intorno in cerca di ispirazione e alla fine dico: “Allora magari scrivo qualcosa”. Lui solleva finalmente lo sguardo dal libro ed esclama allarmato: “No, per favore, non metterti a scrivere adesso. Sei sempre via quando scrivi, sei nel tuo mondo e io ho l’impressione di perderti”.
È strano: ogni volta che scrivo, invece, io ho l’impressione di ritrovarmi.

Fazit: Dopo dieci minuti di film io sto già dormendo beata sulla sua spalla mentre lui, esasperato, guarda il soffitto e conta le pecore.

martedì 16 maggio 2017

Il sangue della scassinatrice


È un sabato sera qualunque e sto guardando un film sul divano di casa, quando, intorno alle 23:00, suonano alla porta. Trasalisco: non aspetto nessuno. Suonano ancora, incuriosita mi alzo e vado ad aprire. È la vicina del piano di sopra. Mi dice che non riesce a entrare in casa: la chiave gira a vuoto nella toppa. Mi chiede se posso provare io ad aprire la porta o se, eventualmente, può fermarsi a dormire da me. – Certamente, le dico, e salgo con lei la rampa di scale che separa le nostre due abitazioni. Infilo la chiave nella toppa, provo e riprovo, la tiro avanti e indietro poi la giro ancora e – tac! – si apre. La vicina mi ringrazia ripetutamente, poi mi guarda con un sorrisetto ammiccante e dice in italiano (con il classico accento da macchietta ricalcato dai film di mafia che usano i tedeschi che non parlano l’italiano quando vogliono dire qualcosa che ritengono faccia italiano – come “ma che cazzo dici?!” oppure “ciao bella!”): “Siciliana!”. Quest’esclamazione mi colpisce e per un attimo sono indecisa se esserne offesa o divertita; alla fine propendo per la seconda: la mia vicina voleva essere simpatica e non offendermi. Così sorrido, le auguro la buonanotte e vado a casa.
La mia provenienza dal più profondo meridione italiano è un marchio pieno di cliché. Visto che sono siciliana dovrei saper fare gli arancini o comunque cucinare bene pietanze mediterranee a base di pesce, aglio e olio d’oliva; visto che sono siciliana sono giustificata se non so sciare, ma dovrei saper nuotare come un delfino, perché “tanto sei cresciuta al mare!” (perché nessuno tiene conto che in Sicilia ci sono anche i paesi dell’entroterra); visto che sono siciliana dovrei sopportare bene il caldo; visto che sono siciliana dovrei avere almeno un parente mafioso (altrimenti il mio pubblico nordico è deluso o inizia a mettere in dubbio la mia provenienza), visto che sono siciliana ho il sangue della scassinatrice. Un’accozzaglia di cliché dunque: una mafiosa, provetta nuotatrice e angelo del focolare. Quest’immagine mi diverte.
Questa storia però me ne porta alla memoria un’altra, un po’ più lontana. 


Quando avevo diciotto anni mi sono trasferita dal mio paesello dell’entroterra siciliano a Palermo, che per me allora non era solo una città, ma rappresentava il mio sogno di libertà: finalmente avrei lasciato la casa dei miei, un piccolo paese di provincia che mi soffocava, finalmente avrei studiato all’università, conosciuto persone nuove, mi sarei, forse, sentita al posto giusto – o per lo meno non più completamente fuori posto. Non avevo moltissimi soldi a disposizione, ma tant’è, l’entusiasmo era tale che mi sarei adattata a tutto. Prendo in affitto una camera in un appartamento condiviso con altre tre ragazze, al primo piano di una grande palazzina. Il quartiere non era dei più in: non era certo pericoloso come quelli mostrati in Gomorra (che non ho mai visto, ma che posso immaginare dalle descrizioni di amici appassionati di serie tv), ma ogni settimana, sulla via di casa, c’era qualche macchina carbonizzata (“autocombustione” mi spiegava la mia coinquilina palermitana di fonte la mia faccia incredula e un po’ spaventata – doveva pensare che io fossi molto ingenua, e in effetti allora lo ero), qualche saracinesca di attività commerciali “sigillata”, qualche “fermo” e qualche scippo. Questa realtà, nel mio piccolo paese, non l’avevo mai vissuta, ma fin da bambina tutti mi avevano ripetuto quanto fosse pericolosa Palermo, così quello che vedevo non era nulla più di quanto mi aspettassi.
Nello stabile dove ho vissuto per tre anni c’era un cancello blindato davanti all’ingresso di ogni pianerottolo, che proteggeva così gli appartamenti da eventuali ladri. Una volta, di ritorno dall’università, il cancello del mio pianerottolo non si apriva: io non riuscivo ad entrare e la mia coinquilina palermitana non riusciva ad uscire – e, con lei, neanche gli inquilini degli altri due appartamenti del nostro piano. Tra il panico generale mi offro di andare da un ferramenta (l’efficientissimo Schlüsseldienst, in Germania) per risolvere il problema. La mia coinquilina mi dice: “No, vai piuttosto al sesto piano e cerca il signor Taldeitali: lui sicuramente saprà aiutarci”. Così salgo al sesto piano pensando, nella mia ingenuità, che Taldeitali avesse una ferramenta, fosse un fabbro o qualcosa del genere. Suono il campanello, mi apre un vecchietto distinto. Gli spiego il problema, lui gentilmente mi dice di aspettare e va a prendere i suoi attrezzi. Scende insieme a me chiacchierando del più e del meno. Arriviamo al primo piano, saluta gli inquilini “imprigionati” dietro le sbarre del cancelletto e si mette all’opera. Prende un seghetto, una lima e una tronchese, zac zac, meno di cinque minuti et voilà! Ha tagliato una chiave a metà, l’ha limata un po’, due colpetti alla serratura e il cancello si apre senza sforzo. Lo guardo ammirata, ma nessun altro, a parte me, sembra stupito. Alla fine lui si accomiata raccomandandoci di cambiare al più presto la serratura. Entriamo in casa e dico alla mia coinquilina “Che bravo il signor Taldeitali! È del mestiere?” e lei mi risponde con naturalezza “Sì, è uno scassinatore!”. Fantastico, mi dico ironicamente, lo scassinatore gentiluomo. Anche quella volta, per un attimo, non sapevo se essere indignata o divertita – e anche quella volta ho optato per la seconda.
So che con questa storia avrò confermato almeno una dozzina di cliché sulla Sicilia: ma è stato solo un episodio sporadico. Quello è stato l’unico scassinatore che io abbia mai conosciuto a Palermo, lo giuro!

domenica 14 maggio 2017

La partita a poker


Chi mi conosce lo sa: l’opera è una delle mie più grandi passioni. Quest’inverno, a Vienna con una mia amica, ho giocato carte false per ottenere, da uno dei tipi loschi vestiti di rosso (altrimenti noti come bagherini), dei biglietti economici per assistere alla rappresentazione del Barbiere di Siviglia di Rossini al Teatro dell’Opera. Iniziamo a contrattare in mezzo alla strada, quando lui ci propone, per un prezzo esorbitante, dei biglietti per uno spettacolo turistico (valzer di Strauß, arie di Puccini e l’immancabile Libiamo i lieti calici! di Verdi) in una sala dove, sosteneva l’elegante signore, una volta aveva suonato (o potrebbe aver suonato) Mozart (ma davvero? Che sorpresa, siamo a Vienna…). Quando lui capisce che sono irremovibile si guarda intorno circospetto e ci dice di seguirlo. La mia amica non parla il tedesco, non ha capito nulla della nostra conversazione e cammina accanto a me un po’ intimorita pensando che forse non era troppo prudente seguire quello strano tizio che abbandonava la strada centrale per entrare in un grande palazzo anonimo. Non vorrei trascinarla in un pasticcio, ma ho un gutes Gefühl, un buon presentimento, che, unito all’eccitazione di trovarmi finalmente a Vienna, mi suggerisce di non demordere. Il tipo losco ci conduce da un tipo ancora più losco che comincia a giocare con me quella che, agli occhi della mia amica, sembrava una partita a poker. Punto al ribasso. Vinco. La carta vincente è, sorprendentemente, la mia provenienza dal più profondo sud dell’Italia. Quando il tizio ne viene a conoscenza mi mostra con aria complice un tatuaggio sospetto, di cui non comprendo il significato. Tuttavia annuisco fingendo di capire. Lui è contento, ci dà i biglietti insieme al suo numero di telefono, che cestino appena girato l’angolo. La mia amica tira un respiro di sollievo e io faccio salti di gioia. Caro barbiere, stiamo arrivando!
Sulla strada istruisco la mia interlocutrice (che, a sua volta, durante il nostro breve soggiorno, mi aveva istruita sulla storia dell’impero asburgico e sulle vicende, pubbliche e private, della famiglia imperiale) sulla trama, canticchio le arie, parlo dei cantanti. Non riesco a contenere l’entusiasmo. Tanto che a un certo punto lei mi chiede: “Ma l’hai ascoltata così tante volte, come fa a non venirti a noia?”. Domanda legittima, ma lì per lì non riesco a darle una risposta convincente. Le parlo delle diverse messe in scena dei registi che amo, delle interpretazioni dei cantanti, dell'emozione del teatro, ma non riesco a centrare il punto con le parole, mi sento parlare e mi trovo noiosa. Che cos’è questa cosa che non riesco ad esprimere? Come spiegarle che ogni momento della mia vita è scandito dalle note cantate di Mozart, Händel, Verdi, Rossini e Wagner?
Finalmente è ora, entriamo nel teatro gremito di gente. C’è tutta la buona società viennese e noi siamo lì, con indosso i nostri vestiti di fortuna, imbacuccate per resistere al gelo austriaco, un po’ turiste e un po’ barbone, ma ci sentiamo delle gran dame. Prendiamo posto, si apre il sipario, lo spettacolo ha inizio. Chiudo gli occhi durante l’overture, lascio che ogni singola nota mi attraversi, la lascio vibrare dentro di me. Apro gli occhi e anche il mio sguardo si riempie di musica. La mia amica mi guarda e capisce quello che poco prima non avevo saputo spiegarle a parole. E in un attimo sono già di là.