Non ho mai avuto
una grande comprensione per gli italiani che, all’estero, hanno esclusivamente
amici italiani, rifiutano di imparare la lingua locale o di parlare quantomeno
una lingua franca e criticano costantemente il paese straniero che li ospita,
decantando invece, per contrasto, tutte le qualità del Belpaese e,
naturalmente, degli stessi italiani. Certo anche io ho amici italiani e non
disdegno affatto di intrattenermi con qualcuno nella mia madre lingua (anzi:
quando la “nostalgia di casa”, Heimweh, si fa più forte, sento proprio la
necessità di parlare in italiano con qualcuno); ma ogni volta che mi sono
impiantata in un Paese nuovo ho avuto voglia di fare amicizia (o almeno
provarci!) con gli indigeni – e non per mera curiosità antropologica – di
imparare la lingua, di immergermi nei nuovi colori, profumi e suoni (sarà forse
autosuggestione, ma adesso mi sembra di riconoscere, guardando il colore e
“l’altezza” del cielo, se mi trovo in Sicilia, in Lombardia, in Elvetia o in
Alemagna). Non ho mai capito, così, gli italiani che, all’estero, riproducono
una piccola Italia molto esclusiva, un gruppo chiuso e sigillato ermeticamente
che non lascia entrare niente e nessuno che sappia di straniero.
Non li ho mai
capiti fino ad ora, nel momento degli addii. Adesso che il mio tempo tra le
Alpi sta volgendo al termine mi dico che sarebbe stato più facile se avessi
fatto anch’io così, se mi fossi chiusa dentro e avessi disprezzato l’estraneo, crogiolandomi
nella nostalgia di “casa” (che poi, che cosa e dove sia la mia casa, a dirla
tutta, non lo so neppure io). E invece mi sono aperta a tutto: cose, persone,
paesaggi, gesti – ho imparato ad amarli, li ho fatti entrare nel cuore. E
adesso fa male dire: “Teniamoci in contatto” o “Tanto ci rivedremo presto”,
mentre so bene che dietro queste frasi quasi sempre si nasconde un lapidario
“Addio”, fa male mettere via tutte le mie cose dalla “mia” scrivania, che tra
pochi mesi sarà occupata da un’altra persona e che non avrà più niente di me, dare indietro
le chiavi, lasciare la finestra dalla quale facevo viaggiare lo sguardo,
lasciare il sapore dell’aria e quello dei sogni. Oggi la mia amica svizzera mi
ha detto: “Non preoccuparti: si chiude una porta e se ne apre un’altra”, in
Italia si dice: “Se si chiude una porta si apre un portone” – anche se mi sono
sempre chiesta perché la chiusura di una porta piccola comporti l’apertura di
una più grande o perché un portone debba essere preferibile a una porta. Tant’è.
Ripenso a tutte le volte che mi sono lasciata alle spalle qualcosa e cerco di
aguzzare lo sguardo e scrutare l’orizzonte nel tentativo di scorgere un
indizio, di anticipare il destino. Mi accorgo che in me (anche adesso come in
passato) la curiosità vince la paura dell’ignoto. Così chiudo piano piano
questa porta nell’attesa che si apra il famoso portone (o porticina, o porta a
soffietto, o finestra, o, chissà, saracinesca) che mi faccia entrare nel
futuro.