In ogni lingua ci
sono parole difficili o addirittura impossibili da tradurre, se non con
perifrasi che spesso ne distorcono il significato o che comunque non rendono
perfettamente l’immagine di ciò che il termine originale indica. Sono parole
legate a una determinata cultura che, se sradicate da essa, non attecchiscono
nel terreno di un’altra cultura e un’altra lingua – non arido, ma diverso – e
rimangono impalate, come corpi estranei ed isolati in un mondo che non li
comprende.
Così il Wanderer di Nietzsche in italiano si
trasforma nel passeggiatore che,
diciamoci la verità, non suona particolarmente poetico e dà piuttosto l’idea di
un tizio sfaccendato che trascorre le sue giornate percorrendo in lungo e in
largo marciapiedi di noiose città. Ma wandern,
in tedesco, significa molto più che passeggiare, camminare o marciare. Se un
tedesco ti invita a fare una Wanderung
ti sta chiedendo di andare con lui a fare una “camminata” di durata variabile
da 1,5 (raramente) a 7-8 ore lungo sentieri (scoscesi) di montagna, la cui
difficoltà è segnalata da piccoli cartelli e indicazioni che ogni Wanderer (che non è quindi un semplice passeggiatore) conosce. Per accompagnarlo
in questa impresa è consigliabile essere ben equipaggiato e indossare Wanderschuhe (scarpe da trekking non a caso, anche questa volta,
non si tratta di una parola italiana, seppure oggi sia entrata nel nostro
lessico) e Wanderhose (pantaloni da trekking) – quindi sempre wander-qualcosa. Forse wandern si potrebbe tradurre “fare una
scarpinata”, ma così facendo questo verbo si connoterebbe negativamente, cosa
che originariamente non è. Del resto, cosa ne sappiamo noi della secolare
tradizione teutonica delle Wanderungen?
Noi che (e con noi mi riferisco al
paese da cui provengo) prendiamo la macchina anche per andare a comprare il
pane?
Un’altra parola
tedesca difficile da rendere in italiano è Schadenfreude,
“rallegrarsi delle disgrazie altrui”. L’altra sera, in Germania, sono andata al
cinema studentesco a vedere The General,
un vecchio film muto in bianco e nero. Non mi sentivo particolarmente
socievole, così ho sistemato uno zaino e una maglia sulle poltroncine alla mia
destra e alla mia sinistra per godermi la pellicola tranquillamente, senza
dover curarmi di fare conversazione con qualche faccia (s)conosciuta o di
essere simpatica. Inizia così la proiezione. Sulla scena si susseguono le
disavventure di un pilota di locomotiva che, in un colpo solo, durante la
guerra di secessione americana, per mano degli avversari, perde ciò a cui
teneva di più nella vita: la sua locomotiva (chiamata, appunto, The General) e la ragazza amata. Nel
tentativo di recuperare gli oggetti di affetto e desiderio il protagonista si
dà a un inseguimento forsennato dei rapitori – non privo di imprevisti e di
incidenti: una volta rischia di essere colpito da una palla di cannone, una
volta ruzzola malamente da un precipizio, un’altra volta viene ustionato da un
sigaro acceso. L’intento del film è comico, ma vedere il protagonista vittima
di così tante disavventure suscitava in me compassione piuttosto che ilarità. Tuttavia,
nel buio della sala, sentivo gruppi di ragazzi e di ragazze dietro e intorno a
me ridere forte e di gusto soprattutto mentre il povero Johnnie Gray era
vittima di dolorosi incidenti. Mi sono detta allora che non è un caso che in
tedesco esista una parola come Schadenfreude.
Certo, anche in Italia non manca chi ride quando vede qualcuno ruzzolare giù
per le scale, ma di questo non abbiamo fatto un verbo!
La mia parola
tedesca preferita però è Fernweh, che
in italiano si potrebbe tradurre con: “nostalgia di posti lontani”. Non è una
traduzione perfetta perché normalmente si ha nostalgia di qualcosa che si
conosce, di bei momenti che appartengono al passato e adesso vivono solo nella
memoria, ma che un tempo erano presenti e reali. Per questo si dice “nostalgia
del passato” e non “nostalgia del futuro”. Anche il Fernweh è legato alla cultura. Durante i primi diciotto anni della
mia vita ho vissuto in un posto in cui le persone che mi circondavano non
avevano mai mostrato di provare nulla che somigliasse vagamente alla “nostalgia
di posti lontani” di cui parlo. Certo, molti sognavano di rosolarsi sotto il
sole di isole tropicali, ma questi erano sogni presi in prestito da cartelloni
promozionali esposti dietro le vetrine di agenzie di viaggio o dalle pubblicità
di compagnie di navi da crociera. Non sapevo che la “nostalgia di posti
lontani” esistesse e che, da qualche parte nel mondo, c’era qualcuno che a
questa inquietudine aveva dato un nome. In Germania posso dire “ich habe Fernweh” e tutti capiranno
quale sentimento muove la mia anima.
Ovviamente lo
stesso vale anche per le traduzioni in senso inverso. C’è una parola siciliana,
infatti, che gli operosi e diligenti tedeschi non capiranno mai (e neppure i
milanesi, senza andare troppo lontano). Si tratta di lagnusia, che non corrisponde perfettamente all’italiano “pigrizia”
o al tedesco “Faulheit”, ma contiene una sfumatura che solo chi è cresciuto sotto
il sole rovente del meridione, dove la vita scorre lenta e placida e il tempo
non esiste può capire.