martedì 27 giugno 2017

Rallegrarsi delle disgrazie altrui e nostalgia di posti lontani



In ogni lingua ci sono parole difficili o addirittura impossibili da tradurre, se non con perifrasi che spesso ne distorcono il significato o che comunque non rendono perfettamente l’immagine di ciò che il termine originale indica. Sono parole legate a una determinata cultura che, se sradicate da essa, non attecchiscono nel terreno di un’altra cultura e un’altra lingua – non arido, ma diverso – e rimangono impalate, come corpi estranei ed isolati in un mondo che non li comprende.
Così il Wanderer di Nietzsche in italiano si trasforma nel passeggiatore che, diciamoci la verità, non suona particolarmente poetico e dà piuttosto l’idea di un tizio sfaccendato che trascorre le sue giornate percorrendo in lungo e in largo marciapiedi di noiose città. Ma wandern, in tedesco, significa molto più che passeggiare, camminare o marciare. Se un tedesco ti invita a fare una Wanderung ti sta chiedendo di andare con lui a fare una “camminata” di durata variabile da 1,5 (raramente) a 7-8 ore lungo sentieri (scoscesi) di montagna, la cui difficoltà è segnalata da piccoli cartelli e indicazioni che ogni Wanderer (che non è quindi un semplice passeggiatore) conosce. Per accompagnarlo in questa impresa è consigliabile essere ben equipaggiato e indossare Wanderschuhe (scarpe da trekking ­ non a caso, anche questa volta, non si tratta di una parola italiana, seppure oggi sia entrata nel nostro lessico) e Wanderhose (pantaloni da trekking) – quindi sempre wander-qualcosa. Forse wandern si potrebbe tradurre “fare una scarpinata”, ma così facendo questo verbo si connoterebbe negativamente, cosa che originariamente non è. Del resto, cosa ne sappiamo noi della secolare tradizione teutonica delle Wanderungen? Noi che (e con noi mi riferisco al paese da cui provengo) prendiamo la macchina anche per andare a comprare il pane?

Un’altra parola tedesca difficile da rendere in italiano è Schadenfreude, “rallegrarsi delle disgrazie altrui”.  L’altra sera, in Germania, sono andata al cinema studentesco a vedere The General, un vecchio film muto in bianco e nero. Non mi sentivo particolarmente socievole, così ho sistemato uno zaino e una maglia sulle poltroncine alla mia destra e alla mia sinistra per godermi la pellicola tranquillamente, senza dover curarmi di fare conversazione con qualche faccia (s)conosciuta o di essere simpatica. Inizia così la proiezione. Sulla scena si susseguono le disavventure di un pilota di locomotiva che, in un colpo solo, durante la guerra di secessione americana, per mano degli avversari, perde ciò a cui teneva di più nella vita: la sua locomotiva (chiamata, appunto, The General) e la ragazza amata. Nel tentativo di recuperare gli oggetti di affetto e desiderio il protagonista si dà a un inseguimento forsennato dei rapitori – non privo di imprevisti e di incidenti: una volta rischia di essere colpito da una palla di cannone, una volta ruzzola malamente da un precipizio, un’altra volta viene ustionato da un sigaro acceso. L’intento del film è comico, ma vedere il protagonista vittima di così tante disavventure suscitava in me compassione piuttosto che ilarità. Tuttavia, nel buio della sala, sentivo gruppi di ragazzi e di ragazze dietro e intorno a me ridere forte e di gusto soprattutto mentre il povero Johnnie Gray era vittima di dolorosi incidenti. Mi sono detta allora che non è un caso che in tedesco esista una parola come Schadenfreude. Certo, anche in Italia non manca chi ride quando vede qualcuno ruzzolare giù per le scale, ma di questo non abbiamo fatto un verbo!

La mia parola tedesca preferita però è Fernweh, che in italiano si potrebbe tradurre con: “nostalgia di posti lontani”. Non è una traduzione perfetta perché normalmente si ha nostalgia di qualcosa che si conosce, di bei momenti che appartengono al passato e adesso vivono solo nella memoria, ma che un tempo erano presenti e reali. Per questo si dice “nostalgia del passato” e non “nostalgia del futuro”. Anche il Fernweh è legato alla cultura. Durante i primi diciotto anni della mia vita ho vissuto in un posto in cui le persone che mi circondavano non avevano mai mostrato di provare nulla che somigliasse vagamente alla “nostalgia di posti lontani” di cui parlo. Certo, molti sognavano di rosolarsi sotto il sole di isole tropicali, ma questi erano sogni presi in prestito da cartelloni promozionali esposti dietro le vetrine di agenzie di viaggio o dalle pubblicità di compagnie di navi da crociera. Non sapevo che la “nostalgia di posti lontani” esistesse e che, da qualche parte nel mondo, c’era qualcuno che a questa inquietudine aveva dato un nome. In Germania posso dire “ich habe Fernweh” e tutti capiranno quale sentimento muove la mia anima.

Ovviamente lo stesso vale anche per le traduzioni in senso inverso. C’è una parola siciliana, infatti, che gli operosi e diligenti tedeschi non capiranno mai (e neppure i milanesi, senza andare troppo lontano). Si tratta di lagnusia, che non corrisponde perfettamente all’italiano “pigrizia” o al tedesco “Faulheit”, ma contiene una sfumatura che solo chi è cresciuto sotto il sole rovente del meridione, dove la vita scorre lenta e placida e il tempo non esiste può capire.

venerdì 23 giugno 2017

È solo un ufficio (?)


Che cosa pensate quando sentite la parola “ufficio?”. La maggior parte di voi dirà che un ufficio è un luogo di lavoro: quattro pareti, una scrivania (con su magari la foto del compagno, del consorte o della prole incorniciata) e una brutta sedia con le ruote. Forse alcuni di voi rabbrividiranno. Un mio ex fidanzato nutriva un odio viscerale nei confronti degli uffici – sia quelli aziendali che quelli universitari. Quando una volta gli dissi che mi sarebbe forse piaciuto lavorare in una casa editrice mi rispose con sprezzo: “Non vorrai stare nove ore al giorno chiusa in un ufficio? Diventerai stupida!”. Così nel mio immaginario gli uffici erano dei posti grigi in cui le persone venivano derubate della loro fantasia, della loro leggerezza e trasformate in ombre grigie, in automi.
Quando, due anni fa, mi trasferii in Svizzera il mio prof. mi comunicò che avrei avuto un ufficio, da dividere con un’altra dottoranda, un post-doc e un professore. Mi vennero in mente le parole di quel mio ex ed ebbi un po’ paura. Secondo lui il lavoro che nasce sulla scrivania di un ufficio non è come quello che nasce tra le mura di casa o su un prato e io non volevo “mettere al mondo” una tesi di dottorato grigia e scialba.
La prima volta mi presentai in ufficio diffidente. C’era solo il post-doc alla sua scrivania, la tapparella era chiusa a metà, la luce accesa e c’era un leggero odore di polvere. La prima cosa che chiesi fu: “Ma devo per forza lavorare qui o posso andare anche in biblioteca?”. La risposta: “Puoi lavorare dove vuoi”. Incoraggiata da quelle parole (avevo quindi una via di fuga in caso di emergenza) presi posto in quella che da quel momento in poi sarebbe diventata la mia scrivania.
Mi dovetti ricredere sugli uffici e presto in quell’ufficio mi sentii più “a casa” che nella stanza presa in affitto, in cui avevo la mia roba e nel cui letto trascorrevo le mie notti. Le persone lì dentro diventarono la mia famiglia: imparai a conoscere bene i loro ritmi e le loro abitudini. Ascoltavamo l’opera durante le pause, facevamo lunghe chiacchierate sui nostri lavori e sulle nostre vite. La brutta sedia con le ruote si rivelò molto, molto comoda e su quella scrivania scrissi pagine tutt’altro che grigie della mia tesi. Pian piano iniziammo ad arredare quell’ufficio come se fosse davvero casa nostra: una spedizione punitiva all’IKEA et voilà, ecco che un divanetto era pronto ad accogliere le nostre schiene stanche per una (breve!) pennichella dopo pranzo o per leggere un libro in orizzontale. Ordinammo (e ottenemmo) un bel tavolo rotondo che posizionammo al centro della stanza e che si trasformò nella “tavola rotonda” della nostra lettura e traduzione settimanale dei Memorabili di Senofonte. Nel periodo dell’avvento prendemmo l’abitudine di fare insieme una corona, porla al centro di quel tavolo e, ogni settimana, accendere una delle quattro candele. Era così bello guardare la fiamma scoppiettante – e ogni tanto spegnevo la luce per immergermi meglio nella magia del fuoco. Infine (ma per fortuna non alla fine!) comprammo anche una caffettiera elettrica! Se tra di voi c’è qualche italiano capirà l’importanza dell’evento. Che bello non dovere più ingurgitare la brodaglia marrone al vago gusto di caffè della mensa o delle macchinette, ma bere un caffè denso e profumato sul divanetto dell’ufficio.


È stata dura, due anni dopo, separarmi da quel luogo.
Mi ha lasciata indifferente consegnare le chiavi della camera del convento (della vita in convento vi racconterò un’altra volta) che è stato il mio alloggio nell’ultimo anno; non mi ha immalinconita lasciare la finestra (che pure mi piaceva) che si affacciava sul chiostro, sulla chiesetta e sul pioppo alto e sottile – che si dipingevano di nero alla sera, rischiarati, nelle rare notti senza nubi, da una luna tutta tonda. Invece non sono riuscita a trattenere le lacrime mentre raccoglievo le ultime cose dalla mia scrivania. “È solo un ufficio” mi diceva lui, per consolarmi “è solo un posto dove si lavora”. Evidentemente non aveva capito nulla. Una parte di me sarà sempre legata a questo posto, nel quale sono cresciuta, ho imparato, ho creato, ho riso, ho vissuto – che è stato, per me, una casa. Prima di andare via ho lasciato due cose: una lettera sul tavolo rotondo e una lacrima sulla scrivania – chissà se qualcuno la raccoglierà. 

martedì 13 giugno 2017

Very norma(l) people




 Il supermercato più vicino a dove al momento abito in Germania fa parte di una grande catena tedesca chiamata Norma. Si tratta di un discount di qualità, a mio avviso, un pelino sotto l’Aldi (dove invece compro sempre delle mini-mozzarelle di bufala che trovo buonissime!), dove la merce è accatastata (e il termine “accatastato” non è scelto a caso) non soltanto sugli scaffali a destra e a sinistra dei corridoi, ma anche in scatoloni posti in mezzo. Spesso vado lì in parte per pigrizia, se non ho voglia di spingermi fino alla prossima Edeka o al Rewe, e in parte perché i cassieri e le cassiere lì sono molto simpatici: mi (ri)conoscono (cosa tutt’altro che ovvia nei supermercati d’oltralpe) e scambiano volentieri quattro chiacchiere tra un cartone di latte, un “no, grazie, non mi serve il sacchetto”, e il resto. Il motivo principale che mi spinge a frequentare questo discount però è di natura antropologica. In questo posto si possono incontrare infatti nature più disparate, eccentriche e fuori dall’ordinario. Il nome del supermercato, scritto a caratteri cubitali all’ingresso in perfetto stile anni 60 (quando questa catena è stata fondata – e immagino che il logo, da allora, non sia stato mai più rinnovato), mi fa pensare a un (relativamente) vecchio spot di un canale radio italiano. Il jingle faceva: RTL. Very normal people, mostrando persone comuni intente a compiere azioni comuni. Normal(i) non sono invece gli abituali frequentatori di “Norma”. Ho incontrato: un uomo che girava per gli scaffali riparandosi da immaginaria pioggia (o grandine, chi lo sa?) sotto un ombrello aperto, un signore vestito da cowboy, una vecchietta che, indecisa su quale prodotto acquistare, intraprendeva lunghe conversazioni con se stessa, un tipo dall’aspetto pericoloso che aveva riempito il carrello di birra analcolica perché, diceva, essere astemio, una signora tutta pelle e ossa che, curva su se stessa, faceva una specie di danza sul posto all’ingresso (quando, all’uscita, mi sono accorta che era ancora lì, le ho chiesto cautamente se andasse tutto bene. Lei mi ha guardata un po’ seccata (del resto l’avevo interrotta), mi ha risposto di sì e poi, come se nulla fosse, ha continuato a ballare). Oggi però durante la mia spedizione da Norma per procacciarmi del cibo mi è capitata per la prima volta una cosa veramente normal, così tanto normal da essere un cliché. Mentre, carica di barattoli di yogurt, bastoncini di pesce surgelato (caduta di stile, lo so e chiedo venia), frutta e insalata, mi dirigo verso la cassa, mi accorgo che un tipo mi sta guardando. Un ragazzone alto e grosso, carico di barattoli di yogurt e di banane (osservare quello che compra la gente, peraltro, è sempre molto interessante e rivela delle persone più di quanto esse stesse non dicano). Colgo il suo interesse, ma lo ignoro e continuo a camminare. Allora lui mi fa: “Scusa, ma tu studi all’università? Ci siamo già visti da qualche parte?”. Classica frase di abbordaggio, in un classico luogo di abbordaggio: un supermercato, tra il reparto della frutta e quello del latte. Più normal di così? Mi chiede se sto andando alla cassa e io gli rispondo che devo ancora prendere qualcosa (nella speranza di risparmiarmi/gli situazioni imbarazzanti), ma lui mi segue imperterrito e inizia a raccontarmi di sé, dei suoi esami, degli sport che fa. Così, rassegnata, mentre ci mettiamo in fila per pagare, ascolto le sue storie. La gente, in fondo, mi incuriosisce e trovo (quasi) sempre divertenti (e talvolta sorprendenti) le conversazioni intavolate nei luoghi più inaspettati con perfetti sconosciuti. Ho una regola però: ogni incontro iniziato in questi luoghi di passaggio deve finire una volta abbandonato il limbo. Mi affaccio nel suo mondo, allora, per tutto il tempo della fila e anche per un pezzo di strada verso la biblioteca, dove le nostre strade si separano quando io imbocco la via di casa. Lui è un po’ deluso e io sparisco senza lasciare traccia. Cara Norma, da te ogni spesa diventa sempre un’avventura.

domenica 11 giugno 2017

Accoglienza berlinese



Appena arrivata nella capitale, abbandono la stazione centrale e mi immergo nel flusso della folla di stranieri e berlinesi. Stanca e un po’ smarrita decido di chiedere informazioni a un gruppo di persone che, supponevo (a ragione) essere indigeni e non turisti. Zaino in spalla e foglio su cui avevo scritto gli indirizzi di cui avrei avuto bisogno in mano, mi rivolgo a una signora. “Mi scusi” dico. Lei mi guarda per una frazione di secondo, poi volta la testa con disgusto e dice Nein. Evidentemente mi ha scambiata per una mendicante. Ora: va bene che mi sono alzata alle cinque del mattino, va bene che ho alle spalle sette ore di viaggio, va bene che durante tutto il tragitto in treno ho lavorato e questo non ha contribuito a donarmi un aspetto fresco e riposato, va bene che ho i capelli in disordine, insomma, va bene tutto: ma davvero sono messa così male da sembrare una mendicante? Glielo chiedo. Lei mi guarda e, questa volta, mi vede. Sorride alla mia domanda, si prodiga in scuse e mi dà più informazioni stradali di quante ne avessi bisogno. Il mio arrivo a Berlino, quindi, è stato da barbona.
È un aneddoto divertente, ma mi chiedo: quante persone guardiamo senza vederle veramente? Quante volte diciamo “no” guardando con sufficienza qualcuno che si rivolge a noi per chiederci qualche spicciolo (o magari delle indicazioni stradali)? Per quella frazione di secondo qualcuno mi ha trattata come se fossi uno scarto dell’umanità e non come una persona.
Una cosa del genere mi era capitata anche in Svizzera, nella città in cui ho studiato negli ultimi due anni. Una volta – mi ero trasferita da pochissimo – ero in stazione e avevo un impellente bisogno di far pipì. I bagni in stazione erano a pagamento e “l’ingresso” costava un franco. Malauguratamente avevo soltanto una moneta da cinque franchi con me e con quella, paradossalmente, non potevo accedere ai bagni. Che fare? Decisi di fermare qualcuno e chiedergli di scambiarmi la moneta. Ma dovetti fermare almeno venti persone (mentre la mia vescica minacciava di esplodere) prima che qualcuno mi desse la possibilità di andare oltre l’excusez-moi e lasciarmi formulare la domanda, senza dire non, non e andare oltre. Scambiata per una barbona anche quella volta. Eppure non ero in disordine e nemmeno particolarmente stanca. Forse dovrei farmi due domande e pensare di cambiare look, oppure lasciare perdere gli studi, cambiare vita e dedicarmi al vagabondaggio, chi lo sa.

venerdì 9 giugno 2017

Rotolando verso nord: la conferenza


Meine Damen und Herren, bitte steigen Sie ein. Vorsicht an den Türen. Ihr Zug fährt jetzt ab.
 
Il mio treno sfreccia in direzione nord. Ad attendermi c’è la capitale, Berlino. Nonostante ci sia già stata, è la prima volta che ci vado da sola e sono un po’ emozionata. Lascio correre lo sguardo dal finestrino: il paesaggio si fa sempre più piatto, l’orizzonte si apre davanti ai miei occhi. È un grande cambiamento per il mio sguardo che, fino a ieri, era stato limitato dalle maestose e imponenti Alpi svizzere, la cui costante presenza mi faceva sentire ora al sicuro e ora prigioniera.
Adesso il mio treno corre in una sconfinata distesa verde puntellata, di tanto in tanto, da piccoli agglomerati di case. Cerco di evitare la mia immagine riflessa sul finestrino, la mia faccia stanca delle cinque del mattino non mi piace. Spero che nessuno si sieda accanto a me perché oggi non ho voglia di fare conversazione. Solitamente mi piace conoscere le persone in treno: è come affacciarmi per qualche ora in un mondo completamente nuovo, esplorarlo e tastarne i contorni. Spesso ho conosciuto persone interessanti durante i miei viaggi: un frate francescano, un vecchio falegname di un paesino sperduto nella foresta nera, un professore di viola dell’università di Berna, una ragazza turca partita da sola in cerca della sua strada, un arabo che mi raccontava del suo modo di vivere e praticare la religione in Germania. Ma oggi sono troppo indaffarata con i miei pensieri per essere aperta a quelli degli altri. A Berlino mi aspetta una conferenza in una delle università più rinomate della Germania. Ho mandato la candidatura senza pensarci troppo. L’ho scritta in un pomeriggio, contagiata dall’entusiasmo di una mia amica. L’email in cui mi comunicavano che il mio paper era stato selezionato e che avrei quindi partecipato a questa conferenza è stata una doccia d’acqua fredda. Prima l’euforia, poi la paura. Perché hanno scelto me? Sarò all’altezza? Sarò in grado di fronteggiare le domande durante la discussione? Non è la prima conferenza a cui partecipo, ma il nome di questa università mi incute un po’ di soggezione. Così sto qui seduta, circondata da libri e dai miei appunti, frenando lo sguardo che, indisciplinato, approfitta di ogni attimo di distrazione per fuggire di nuovo verso l’orizzonte e perdersi nel verde. Berlino, sto arrivando!   

 

sabato 3 giugno 2017

Le mutande da uomo


Non so in Italia, perché quando vivevo lì non mi era (ancora) capitato di confrontarmi con questioni di questo genere, ma nei Paesi d’Oltralpe le mutande da uomo, specialmente i boxer aderenti, hanno una fascia elastica sulla linea del bacino sulla quale vantano a grandi lettere un nome che, immagino, secondo il loro ideatore, dovrebbe suonare molto virile o molto sexy. Così, sotto i pantaloni dei seri e distinti signori che si aggirano negli uffici o passeggiano per le strade di queste città, si nasconde – oltre che un ormai scontato Calvin Klein (il cui nome potrebbe, peraltro, togliere, almeno nell’immaginario, grandiosità all’abitante sud di questo indumento) o un Dolce & Gabbana – un John Adams o un Axel Ford. Immagino un ipotetico atto sessuale in cui la fortunata di turno, prima di cominciare, dovrà presentarsi al sé movente compagno di avventure. Che noia le anonime mutandine di pizzo da donna! Sarebbe più divertente se anche la biancheria intima femminile sfoggiasse nomi accattivanti come Jessica Smith o Fanny Lee. Perlomeno le presentazioni pre-preliminari non sarebbero a senso unico: “John, questa è Jessica, Jessica ti presento John. Buon divertimento!”. Per non parlare di quei boxer che sulla fascia elastica portano la scritta UOMO (in italiano) a caratteri maiuscoli. Che bisogno c’è di specificare? Forse chi li indossa non è sicurissimo della propria identità e ha bisogno di averne una conferma scritta ogni volta che guarda più in giù dell’ombelico? O forse è un’informazione per la propria compagna, nel caso in cui (prima o dopo il rapporto) le venisse in mente di mettere in dubbio la sua virilità? Oppure per fare leva, attraverso una parola italiana, su un fascino latino da indossare al momento opportuno? In Germania c’è una marca di indumenti maschili (intimi e non) che mi fa sorridere: si chiama “Angelo Litrico”, che sa di Italia, suona un po’ come acido nitrico e dà al soddisfatto acquirente teutonico l’idea di avere comprato qualcosa che gli darà un tocco italiano e pericoloso.