sabato 29 luglio 2017

Ritorno all'origine


Tre cose mi fanno capire che sono arrivata in Sicilia:


La prima è l’applauso dei passeggeri per il pilota dell’aereo dopo l’atterraggio. Se volate verso qualsiasi meta europea che non si collochi nel più profondo meridione italiano, quando l’aereo atterra non noterete nessun cambiamento significativo nelle espressioni dei volti che vi circondano. Forse sorrideranno, chi viaggia in coppia scambierà qualche parola con il compagno o la compagna, quando il segnale luminoso si sarà spento slacceranno le cinture di sicurezza e compostamente, dopo aver prelavato il bagaglio, si dirigeranno verso l’uscita. Se, invece, la meta del vostro viaggio è la Sicilia, ve ne accorgerete subito. Già quando la voce dell’hostess annuncia che tra pochi minuti avranno inizio le manovre di atterraggio la tensione sull’aereo sale. Facce eccitate guardano fuori dal finestrino per vedere la Sicilia diventare sempre più vicina, fino a poter distinguere (e forse riconoscere) le strade, le case. Quando finalmente l’aereo tocca il suolo scroscia un fragoroso applauso. I bambini giubilano, le vecchiette tirano un sospiro di sollievo, tutti ridono e iniziano a parlare forte. Prima ancora che il segnale luminoso si sia spento slacciano le cinture, si alzano, cercando di recuperare il bagaglio tra il marasma generale, accendono i telefoni e iniziano a gridare dentro gli apparecchi a genitori, ziii, cugini, amici: “Arrivavu ora!”, “Unni si?”, “Unni ni vidiemmu?”. Una volta, seduta accanto a me c’era una coppia dall’accento del nord, credo lombardo, e, parlottando tra di loro, avevano commentato questo spettacolo dicendo: “Sembra che questi [scil. terroni] non abbiano mai visto un aereo atterrare. Che bisogno c’è di applaudire? Il pilota fa solo il suo lavoro!”. Da personcina razionale e un po’ snob quale sono, o credo di essere, non applaudo nemmeno io l’impresa ben riuscita del pilota e, in linea di principio, sono anche d’accordo con la coppia lombarda: a sentire l’entusiasmo generale sembra che i passeggeri si sorprendano che il pilota sia riuscito a portare a termine con successo le manovre di atterraggio. Tuttavia, anche se non mi unisco attivamente a queste acclamazioni, una parte di me le aspetta e sarebbe delusa se non fosse così. La Sicilia non è solo una regione, ma un modo d’essere, e l’applauso dopo l’atterraggio mi comunica definitivamente che sono arrivata “a casa”.  

La seconda cosa che mi fa capire di essere arrivata in Sicilia è guardare il mondo dall’alto in giù: dopo l’atterraggio, infatti, se mi guardo intorno, all’altezza del mio sguardo, vedo facce e non toraci, busti e (nel peggiore dei casi) pance. Mentre in Germania, con il mio metro e sessanta, faccio parte della minoranza bassa della popolazione e devo far fronte anche alle difficoltà che comporta il vivere in un posto in cui tutto (architettura, arredamenti, abbigliamento…) è fatto su misura per persone decisamente più alte di me (a casa mia, per esempio, lo specchio del bagno è troppo in alto e devo ricorrere a sgabellini e altri stratagemmi per truccarmi o semplicemente guardarmi in faccia), qui in Sicilia la mia è un’altezza media e non di rado mi capita di parlare con donne – ma anche uomini – più bassi di me. Sentirmi alta – è questa la prima impressione che ho ogni volta che faccio ritorno nella mia terra.  

La terza cosa non è un’osservazione, ma una sensazione che non so bene spiegare. Lo ammetto, quando l’hostess annuncia che l’aereo sta per atterrare anche io sono tra quelli che incollano il naso al finestrino per guardare l’isola diventare sempre più vicina. Guardo l’ombra dell’aereo che saetta sui campi gialli, bruciati dal sole rovente dell’estate e il mio cuore ha un sussulto. Una forza di attrazione irresistibile mi tira verso il posto che pure ho lasciato e in cui non vivrei. Mi tira come una corda che diventa tanto più tesa quanto più cerco di ribellarmi. Mi tira verso il posto che ho odiato, che mi stava stretto, che mi soffocava. Mi tira nel posto da cui sono scappata. Mi tira nel luogo delle mille giustificazioni e delle poche scuse. È il richiamo della terra, la voce minacciosa e rassicurante del mare che dall’aereo non posso sentire, ma che mi parla direttamente al cuore se solo guardo dall’alto il movimento delle onde. Si riscalda qualcosa dentro di me, brucia ancora quella fiamma, non si è spenta. Per quanto io possa andare lontano, per quanto io possa scappare, questa è la mia terra, questa terra sono io: è parte di me come io di lei. E questo non cambierà mai. 

 

mercoledì 19 luglio 2017

Giovani trentenni: l'opera e l'età




Se chiudete gli occhi e ascoltate questo duetto, che cosa immaginate? Una voce da basso-baritono sta cantando mentre prende le misure della camera dove istallerà il talamo nuziale destinato a lui e alla sua sposa. Interviene acuto un soprano che lo invita ad ammirare il cappello confezionato in vista delle nozze e il baritono si profonde in complimenti, mentre continua a misurare. Come vi figurate questi personaggi? Quanti anni avranno? 
 

Sono personalità complesse, vive e intraprendenti: Figaro, il Conte di Almaviva, Selim, Belmonte, Osmin, Ferrando e Guglielmo – solo per citarne alcuni. Ho passato anni ad ascoltare i vinili di mio padre, prima di vedere una rappresentazione dal vivo e dare volti a quelle voci. Ci avevo fantasticato sopra a lungo. Me li immaginavo adulti, trentenni affascinanti dalla voce profonda e suadente.
Fui così sorpresa e un po’ delusa quando, facendo due conti, mi resi conto di quanti anni avessero in realtà. Figaro delle famose Nozze – che sta per sposare l’amata Susanna e si batte affinché questo matrimonio possa aver luogo, contro la volontà del Conte che, invece, vorrebbe esercitare il diritto feudale su Susanna, trascorrendo con lei alcune mezzore in antri ascosi del suo podere… –  non doveva avere più di diciassette o diciotto anni, per star larghi. Un ragazzino!
Mi sembrava incredibile, ma il libretto parla chiaro. Quando il Conte gli impone di sposare non Susanna, ma la vecchia Marcellina (non voglio immaginare che cosa intendesse qui il caro Mozart con “vecchia” –  e preferisco non indagare oltre), per saldare un vecchio debito (“Lei t’ha prestato duemila pezzi duri”), Figaro si rifiuta, affermando che non potrà piegarsi a un tale matrimonio senza avere prima l’assenso dei suoi nobili parenti che, ahimè, non è ancora riuscito a ritrovare. Spiega infatti che in tenera età fu rapito e sottratto alla sua nobile famiglia. Da allora sono trascorsi dieci anni. Dieci anni? Mettiamo caso che sia stato rapito all’età di sette anni (ma avrebbe potuto averne anche sei o nove), aggiungiamo i dieci della ricerca ed ecco che Figaro, dall’attraente trentenne del mio immaginario, diventa un ragazzetto di poco più di diciassette anni. 

   
In Così fan tutte non c’è bisogno di grandi calcoli o congetture per scoprire l’età delle due protagoniste dell’opera, Fiordiligi e Dorabella – anch’esse in procinto di sposarsi, il cui amore per i rispettivi fidanzati è messo alla prova da Don Alfonso che, con l’aiuto della cameriera Despina, cerca di indurre (e ci riesce!) le due donne a tradire i promessi sposi con (nientemeno che) i fidanzati stessi travestiti da avvenenti stranieri – tutto questo per dimostrare che le donne sono tutte uguali: infedeli, traditrici. Despina, per convincere le due protagoniste a cadere tra le braccia degli insistenti spasimanti canta che:  

 
 Una donna a quindici anni
dee saper ogni gran moda, / dove il diavolo ha la coda, / cosa è bene e mal cos'è.
Dee saper le maliziette / che innamorano gli amanti, / finger riso, finger pianti,/ inventar i bei perché.
Dee in un momento / dar retta a cento, / colle pupille / parlar con mille, /
dar speme a tutti, / sien belli, o brutti, / saper nascondersi / senza confondersi,
senza arrossire / saper mentire / e, qual regina / dall'alto soglio, / col posso e voglio
farsi ubbidir.    

Dorabella e Fiordiligi sono due quindicenni. E quante cose devono essere in grado di fare a quindici anni! Sapere cos’è bene e cos’è male, fare innamorare fingendo riso o pianto gli uomini ingenuotti – sia che siano belli, sia che siano brutti. La cosa più importante, però, è sapere mentire e sfruttare la menzogna per comandare. È vero che si tratta di opere composte alla fine del 1700 e che allora a quindici anni si era già donne fatte, ma prendere la consapevolezza della loro età rivoluziona il mio modo di immaginarle. Immagini corroborate anche dalle messe in scena più diffuse: sia quelle tradizionali, che quelle più moderne – che le fanno apparire come trentenni disilluse, un po’ annoiate e consumate dall’alcol.

Più simpatica trovo invece quella di Sergio Morabito in cui Dorabella è una quindicenne impacciata  e insicura che si fa incantare dalle parole della scaltra cameriera e comincia timidamente a sognare corteggiamenti romantici e amanti passionali. 


 Del resto, come rimproverare di infedeltà verso fidanzati assenti due quindicenni in piena tempesta ormonale?

giovedì 13 luglio 2017

Come diventare nobile (2° parte)


 L'importanza di avere un titolo

 
Ci sono almeno due modi per diventare nobile (anche se probabilmente ce ne saranno anche un terzo e un quarto a me ignoti): per nascita o per matrimonio. Un ex compagno di scuola di lui ha optato per il secondo e da comune mortale è diventato barone.
Incuriosita fin dall’arrivo dell’invito, ho potuto finalmente prendere parte all’aristocratico evento. Onestamente me lo immaginavo diverso. Adesso posso rassicurare le mie amiche e conoscenti siciliane che sono convolate a nozze con matrimonio principesco (“normale” per le usanze e le tradizioni della mia terra), che hanno sicuramente raggiunto lo scopo: il loro ricevimenti di nozze non avevano assolutamente nulla da invidiare ai matrimoni dei nobili veri.
Nel biglietto d’invito, o per meglio dire nei biglietti, era indicato un dresscode: era richiesto (in particolar modo agli uomini) un outfit diverso per ogni occasione, in ordine crescente di eleganza – dalla festa di benvenuto (sommerlich-festlich) alla cena di nozze, per la quale ogni invitato poteva scegliere “liberamente” se indossare uno smoking o un cutaway (della cui esistenza, fino a quel momento, ero allo scuro). Per le donne era più complicato perché non era consigliato esplicitamente un determinato tipo di abito: naturalmente era sottinteso e le aristocratiche dame avrebbero saputo di certo che cosa indossare per rispettare l’etichetta. Durante la cerimonia in chiesa (alla quale ho preso parte in piccionaia, avendo così la possibilità di osservare la nobiltà dall’alto) ho fatto la mia prima scoperta: se volete essere nobildonne, o almeno essere scambiate per tali, in queste occasioni dovete indossare un cappello. Ovviamente non un cappello qualunque, ma uno esagerato: grande, appariscente, magari rosa o in tinte sgargianti, con su un fiocco o un qualche ornamento piumato, in stile Queen Elizabeth. In mancanza di cappello potrete ricorrere a un cerchietto con un enorme fiore o un’intera composizione floreale. Anche la veletta fa molto aristocrazia. Ach, se l’avessi saputo prima avrei potuto mimetizzarmi tra i ranghi alti della società sfoggiando un sobrio cappellino, invece con i miei capelli sciolti e privi di ornamenti rivelavo fin troppo manifestamente la mia appartenenza alla plebe.
Mentre le aristocratiche, dunque, si potevano riconoscere dal copricapo, gli uomini nobili si distinguevano dai non-nobili dal vestito. I non titolati, pur avendo tirato fuori dall’armadio il loro vestito migliore (o avendone addirittura comprato uno per l’occasione) non raggiungevano l’eleganza di conti e baroni che passeggiavano nel giardino del palazzetto abbigliati come dei direttori d’orchestra – o dei simpatici pinguini.
Visto che le differenze tra l’aristocrazia e la plebe erano così evidenti già dal vestiario, sul momento ho supposto che non ci sarebbe stata comunicazione tra i due mondi: pensavo che pinguini e cappellini avrebbero parlato con pinguini e cappellini della stessa specie, mentre il resto della fauna matrimoniale si sarebbe dovuta intrattenere da sé. Durante il rinfresco ho, invece, scoperto con mia grande sorpresa che la linea di demarcazione che ci separava non era così netta e che se avessi voluto avrei potuto diventare nobile anch’io. Ohibò! Sarebbe bastato sposare uno di quei (per lo più) vecchi simil-direttori di orchestra che sono venuti a fare conversazione con me, lusingandomi con complimenti per i miei capelli e per il mio tedesco, incantati dalle mie origini esotiche. Conversazioni più o meno imbarazzanti durante le quali ho però scoperto una cosa: ai nobili piacciono i titoli. In effetti avrei potuto arrivarci anche da sola. Per l’aristocrazia è importante assegnarti un titolo: se non ne hai uno nobiliare, va bene anche un titolo di studio. Infatti anche nei segnaposto personali sulla tavola della cena non c’era scritto solo il tuo nome e cognome: se avevi fatto il dottorato sul tuo cartellino c’era scritto Dr. Seppurpovero Almenocolto. Questa cosa mi divertiva, mi sembrava di essere a una conferenza. Peccato non avere ancora discusso la tesi, altrimenti avrei goduto anch’io di un tale privilegio!
In fin dei conti questa nuova nobiltà non mi è poi sembrata così diversa da quella descritta da Goldoni ne La Locandiera. Il Marchese di Forlipopoli, aristocratico decaduto e ormai impoverito, cerca di conquistare Mirandolina, proprietaria della locanda, esibendole la sua protezione – alla quale attribuisce inestimabile valore. Il Conte d’Albafiorita, ex borghese arricchito, che ha comprato il suo titolo nobiliare, cerca di aggiudicarsi l’amore della locandiera a suon di danari offrendole preziosi gioielli e laute mance. Personaggi creati e messi in scena per suscitare il riso, caricature della società.


 Tanto alla fine, in barba alla nobiltà, Mirandolina decide di sposare il cameriere Fabrizio – scelta discutibile, ma almeno onesta.

lunedì 10 luglio 2017

Come diventare nobile (1° parte)



Un gioco re(g)ale 


In questo non peccherò di originalità, ma il mio sogno da bambina era quello di essere una principessa. Non per i bei vestiti o per il castello, né tantomeno per essere sposata da un principe: i principi delle fiabe mi sembravano figure piatte e insignificanti, palloni gonfiati pieni di sé che combattevano draghi e affrontavano maghi cattivi per salvare principesse di cui si dichiaravano innamorati persi, dopo averci parlato sì e no una volta o averne visto soltanto il ritratto. Deludenti. Come Tamino nel Flauto magico di Mozart, che si cimenta in pericolose imprese per salvare l’amata (?) Pamina, vista solo in quadro. Come quando oggi qualcuno si dice innamorato di una ragazza dopo averne visto solo la foto su Facebook. Quando sento una storia del genere non posso fare a meno di pensare a quest’aria di Tamino.

 Dies Bildnis ist bezaubernd schön, ok. E come la mettiamo se poi puzza o non sa fare 2+2? Ma sì, chi se ne importa! Affrontiamo pure l’astuto serpente (die listige Schlange) senza avere né i mezzi né le capacità di farlo, in nome di una femminea bellezza (che poi, sia i dipinti che le foto su sui social possono anche essere mendaci e non corrispondere esattamente al soggetto ritratto), tanto alla fine il lavoro sporco lo faranno le tre dame (Triumph! Triumph!). 
 

 Il principe azzurro quindi non mi interessava, così come non mi fidavo dei tenori. Sognavo di essere una principessa per sfuggire alla monotonia e alla noia della vita di paese. Mi divertivo così a riscrivere le mie giornate su diari, reinventando gli eventi di poca importanza che si susseguivano nella mia quotidianità attraverso un gioco che avevo ideato. Il gioco consisteva più o meno in questo: come una piccola Harry Potter ante litteram (perché allora il maghetto occhialuto non era ancora stato inventato, o comunque non aveva ancora fatto la sua comparsa nelle edicole/librerie dell’entroterra siciliano) avevo ricevuto una lettera in cui mi venivano rivelate le mie nobili origini, che dovevano tuttavia restare segrete perché un parente cattivo mi stava cercando per farmi fuori, in modo da poter ereditare la corona al posto mio. Dovevo così dimostrare (a misteriosi osservatori) di essere all’altezza del mio rango e del mio destino, affrontando prove di coraggio e di resistenza, mostrare di avere un portamento elegante, di essere intelligente e colta (e lì a mandare giù a memoria poesie – che tutt’oggi non ho dimenticato – e brani del libro di storia), magnanima, ma anche intransigente di fronte a ingiustizie e infrazioni. Al contempo dovevo stare attenta a non essere scoperta da quel parente cattivo cattivo e ideavo tecniche di difesa. Se dei vecchietti per strada si toglievano il cappello (la coppola) per salutarmi (ma credo, piuttosto, per salutare mia madre accanto a me), per me erano delle guardie in incognito che mi avevano riconosciuta a mi davano segno della loro devozione. Se a scuola il maestro scriveva “ottimo” sul mio compito, per me non era solo riferito all’esercizio, ma si trattava di un messaggio cifrato per comunicarmi che tutto stava andando secondo i piani. La bicicletta era il mio destriero e mettevo alla prova le mie forze inerpicandomi in salite molto ripide, per essere pronta nel caso in cui il mio parente cattivo o uno dei suoi uomini fossero venuti a cercarmi. 

 
Sono figlia unica, nel mio paese non c’era una biblioteca né tantomeno una libreria e internet non sapevo neppure cosa fosse, così mi arrangiavo a passare il tempo e a rendere più interessante la mia vita da bambina. Non so quando io abbia smesso di giocare a questo gioco – forse solo alla fine della scuola elementare? Con l’inizio della scuola media ho perso ogni interesse per la nobiltà e ho creato altri mondi per sfuggire alla noia del mio.

Erano passati almeno tre lustri e mezzo dall’ultima volta che la mia fantasia aveva galoppato tra i sentieri dell’aristocrazia, quando, un paio di mesi fa, arriva a casa una lettera: l’invito al matrimonio di un ex compagno di scuola di lui e una giovane baronessa tedesca. Vecchi ricordi di giochi sognati riemergono da zone polverose della mia memoria. Come saranno i nobili veri? L’invito è molto formale: il barone e la baronessa von Taldeitali annunciano il matrimonio della loro figlia con Johannes Plebe. Dentro la busta ci sono quattro biglietti: con uno veniamo invitati alla festa di benvenuto che avrà luogo il giorno prima, con l’altro alla cerimonia in chiesa, con il terzo al rinfresco dopo la cerimonia e con l’ultimo alla grande festa la sera delle nozze. C’è infine un biglietto su cui dobbiamo indicare (mettendo una crocetta sull’apposito quadratino) a quale degli eventi prenderemo parte e rispedirlo al mittente. Sembra un quiz a risposta multipla, come la terza prova degli esami di maturità, oppure una scheda elettorale. Tant’è. Metto la croce su tutte e quattro le caselle (questo non potevo farlo agli esami di maturità) e imbuco la busta. Adesso sono curiosa: come sarà la nuova nobiltà?

mercoledì 5 luglio 2017

Dire "ho tempo" e averlo davvero


Ancora non mi sono abituata a dire “ho tempo”, né tanto meno riesco a capacitarmi di averlo davvero. È una sensazione che non provavo forse dai tempi della scuola, quando arrivava giugno, l’edificio verdognolo, sede della mia scuola, chiudeva finalmente i battenti e io e la mia famiglia partivamo per il mare dove restavamo per un mese. Forse più a lungo? Non so dirlo: lì il tempo si dilatava, le giornate scorrevano lente tra passeggiate sulla spiaggia e lunghi bagni al mare, facendo il morto a galla quando il vento non c’era e l’acqua era uno specchio limpido o tuffandosi tra le onde quando c’era aria di tempesta, ignorando le urla di mia madre che mi intimava di non allontanarmi troppo.
Avere tempo. Allora non avevo né un’agenda, né un orologio – non posso più immaginare quale fosse la mia concezione del tempo laggiù. 



 Da quando ho iniziato l’università, invece, il mio tempo è stato scandito da lezioni, tesine e sessioni di esami e l’estate ha smesso di avere la forma dell’orizzonte e l’odore del mare. Triennale, specialistica, corsi estivi di tedesco, domande per borse di studio, ancora una laurea e poi il dottorato. Un tempo che non ho contato in giorni e mesi, ma in scadenze. Negli anni del dottorato, poi, non è cambiato soltanto il mio modo di percepire il tempo, ma anche lo spazio. I confini intorno al mio corpo si sono ristretti, mentre cercavo di allargare quelli della mia mente. Così il mio mondo consisteva quasi esclusivamente nel circuito stretto che mi portava da casa al mio ufficio o in biblioteca. L’università era la mia città e i suoi corridoi le mie strade. Mi sapevo orientare, mi sentivo padrona di quegli spazi. La rigida disciplina che mi ero imposta mi permetteva solo di rado di “sgarrare” e uscire da quel circuito per un pomeriggio o per qualche giorno di vacanza. Tuttavia anche in quelle rare occasioni non ho avuto l’impressione di “avere tempo” davvero, di averne legale possesso. Mi sembrava piuttosto di averlo rubato, che non fosse mio e che avrei dovuto renderne ragione.
Poi, finalmente, ho consegnato la tesi.
Devo ammettere che questo momento me lo ero immaginata diverso. Non so, più trionfale, forse, più enfatico. Invece tutto si è ridotto nel posare sul pavimento della segreteria quattro esemplari del mio lavoro, stampato e rilegato. Pensavo che dopo aver consegnato mi sarei sentita più leggera, più felice. Invece mi sono sentita solo un po’ persa e vuota, come un calzino rigirato. Uscendo dalla segreteria mi sono guardata intorno e ho capito di avere tempo e di avere riacquistato anche lo spazio, ma che non sapevo dargli un senso.
Bandita dalla mia città universitaria, confiscatemi le chiavi dell’ufficio che per me era casa, ho aperto gli occhi su una città che, seppur piccola, mi è apparsa improvvisamente immensa. Così, dopo la consegna, sono caduta in uno stato di profonda letargia. Mi sentivo debole e pensavo che da un momento all’altro mi sarei ammalata davvero. Ho trascorso una settimana tra divano del salotto e il balcone, sonnecchiando, osservando i tetti delle case, ascoltato le voci della vita fuori che non aveva affatto il ritmo del mio languido dormiveglia. Poi, piano piano, ho iniziato a sentirmi meno stanca, mi sono risvegliata da quello strano letargo e ho cercato di riadattare il mio corpo e la mia mente a questo spazio più grande e questo tempo nuovamente dilatato. Posso dire “ho tempo” e questo tempo mi appartiene, posso viverlo senza scadenze.
Potrei imparare una nuova lingua o mandare a memoria altri versi dell’Orlando furioso (dove ero arrivata?), potrei fare un viaggio prenotando il biglietto di andata e non quello del ritorno, potrei semplicemente leggere Der Radetzkymarsch sul balcone con le gambe al sole (da quanto tempo, poi, non mi abbronzavo?), potrei andare al mare e fare il morto a galla guardando il cielo, andare in bici verso un luogo, poi cambiare idea e proseguire per un’altra strada. Potrei decidere di fare qualcosa sul momento, improvvisando. Non mi ricordo nemmeno quando è stata l’ultima volta che l’ho fatto – e l’ho fatto? Avere tempo, che strana novità.



lunedì 3 luglio 2017

La consegna della tesi: una tragicommedia in tre atti



State scrivendo la vostra tesi di dottorato in Germania e vi sembra di vedere la fine? Vi sentite ormai vicini al traguardo? Dovrò deludervi allora e mettervi in guardia: prima di ottenere l’agognato titolo di “dottore” dovrete fare i conti con la burocrazia tedesca. Se avrete fortuna, una segretaria gentile e disponibile risponderà alle vostre domande e chiarirà i vostri dubbi. Se, invece, avete deciso di studiare in un luogo in cui il personale di segreteria non vanta di qualità tanto umane, allora il percorso che vi separa dal traguardo potrebbe diventare più lungo e, soprattutto, più ripido. Vi ritroverete da soli con un piccolo malloppo di fogli colorati (non certo per mettervi allegria, ma per distinguere l’Infoblatt, foglio di informazioni, dal Musterblatt, facsimile, e dalle varie Erklärungen che si dovranno allegare alla vostra tesi) scritte in Times New Roman 9, per essere generosi, in burocratese stretto, con tanto di asterischi singoli, doppi e addirittura quadrupli che si riferiscono alla Promotionsordnung che è consultabile sulla pagina internet della facoltà – anch’essa, naturalmente, scritta in carattere 9, in burocratese stretto. Una vera gioia.
Come potrete immaginare, io non sono stata tra quelli baciati dalla fortuna e, in questa avventura burocratica, ho dovuto cavarmela da sola. Mi sono detta: “Che cosa sarà mai! Ho già scritto la mia tesi di dottorato, queste sono solo le ultime formalità”. Le ultime parole famose.    
Mi reco così in segreteria, prelevo il suddetto plico di moduli e ritorno a casa armata di dizionario (guai a interpretare male qualcosa!) e tanta pazienza.
Qualche dubbio però mi resta. Il mio contratto non è un contratto qualsiasi perché si tratta di una cotutela tra due università di due nazioni diverse e i moduli si riferiscono soltanto a studenti che hanno studiato esclusivamente in Germania. Non ho scampo dunque: per evitare di fare pasticci devo farmi coraggio, andare nella tana del lupo e domandare.
Tra gli impiegati di segreteria qui ce n’è uno in particolare famoso per terrorizzare studenti e dottorandi, facendoli scappare in lacrime dall’orario di ricevimento. Sul suo conto girano tante voci – si dice addirittura che uno studente abbia abbandonato gli studi perché lui era riuscito rendergli impossibile immatricolarsi regolarmente. Quando sono arrivata in questa università lui era responsabile degli studenti di Bachelor, Master e dottorato, adesso, per motivi misteriosi (ma non troppo), è stato assegnato solo ai dottorandi, isolato dagli altri studenti e da tutti gli altri uffici, nell’ultimo piano dell’edificio, alla fine di una scala di legno scricchiolante. Non ho mai prestato fede a queste voci, “sono solo leggende”, mi sono detta. Del resto avevo già avuto degli incontri ravvicinati con lui e con me non si era mai mostrato particolarmente sgradevole. Sono arrivata persino a difenderlo (e credo di essere stata l’unica a prendere le sue parti, tra tutti gli studenti che conosco) quando qualcuno ne diceva male. Così mi appunto tutte le mie domande su un foglio e l’indomani vado al suo orario di ricevimento. Quello che è successo può essere descritto come una tragicommedia in tre atti.

ATTO I: Non fare domande.
Arrivo davanti alla porta del suo ufficio. Odore di polvere e penombra. Mi faccio coraggio e busso. Lui mi accoglie con un sorriso sghembo e un po’ ironico e mi chiede cosa desidero, non facendomi accomodare. Prendo allora posto di mia iniziativa, saluto di rimando, gli dico che ho finito la mia tesi di dottorato e che, prima di farla stampare, per non commettere degli errori, avrei voluto porgli alcune domande. Lui risponde: “Fragen sind immer schlecht”, che potrei tradurre con domandare non è mai un bene, e il suo seppur ironico sorriso sparisce, lasciando posto a uno sguardo severo. Non aspettavo una risposta di questo tipo, comincio a innervosirmi. Cerco di sottoporgli lo stesso le mie questioni, ma il suo sguardo spazientito mi mette in soggezione, incespico. Lui taglia corto. Mi dice scostante che tutto quello che devo sapere è scritto sui moduli e che se li leggerò attentamente non avrò bisogno di altro e mi mette alla porta.

ATTO II: Le cassette delle lettere non possono leggere.
Ho provato a fare quello che mi ha detto e cercare le risposte alle mie domande nel malloppo di fogli in burocratese del Promotionsverfahren. Ovviamente non le trovo, considerata la mia particolare condizione di dottoranda in cotutela, ma, visto il mio insuccesso in segreteria cerco di cavarmela da sola – chiedendo ogni tanto aiuto ad amiche e amici che si erano già addottorati qui. Soddisfatta del risultato, una bella mattina di fine giugno, vado in copisteria e faccio stampare la tesi. Che emozione trovarmi finalmente “faccia a faccia” con quello che per quattro anni è stato solo nella mia testa e nei file del mio computer! Prendo le copie destinate alla segreteria e ripercorro la nota scala scricchiolante che conduce davanti al temuto ufficio. Mi dico che non ho nulla da temere: ho fatto quello che mi aveva detto e adesso sto portando quanto richiesto dai moduli, durante l’orario di ricevimento.
“Buongiorno”.
“Buongiorno”.
“Ho portato le copie della mia tesi di dottorato”.
La sua faccia è contrariata. Scopro che quello è sì l’orario di ricevimento, ma non quello in cui è permesso ai dottorandi di consegnare le copie dei loro lavori. Era scritto sui moduli, avrei dovuto saperlo. “Capisco” dico “tornerò la prossima settimana allora”. “No” risponde austero “le lasci qui, le metta pure sul pavimento”. Comincio a spazientirmi, ma ripeto gentilmente: “Non c’è problema, ritorno la prossima settimana”. “Le ho detto di lasciarle lì!” ribadisce lui scandendo bene le parole e alzando il tono della voce. Obbedisco e depongo le mie copie dove mi aveva indicato. “Ha allegato anche i moduli?” chiede, e io: “Sì, vuole controllare?”. Mi guarda beffardo: “No. In questo momento io sono come una cassetta delle lettere e le cassette delle lettere non possono né leggere né ascoltare”. “Ok” rispondo mantenendo la calma e un tono pacato “immagino che se dovessero esserci problemi mi contatterete per e-mail o per telefono. Ho scritto tutti i miei dati sui moduli”. Risposta: “Come se non avessimo niente di meglio da fare che scriverLe delle e-mail. Non è questo il mio compito”. Stringo i pugni, ma sorrido. Avrei voluto dirgli “Qual è allora il vostro compito, di grazia? Sono venuta durante il vostro orario di ricevimento, non mentre stavate mangiando un panino in pausa pranzo o facendo merenda. Non sono venuta a ridosso della chiusura, quando stavate già pregustando il divano e una birra. Il vostro compito, durante l’orario di ricevimento per gli studenti, è proprio quello di ricevere gli studenti e rispondere alle loro domande!”. Invece non dico nulla e me ne vado con l’amaro in bocca. “Cosa importa?” mi dico “quello che conta è che io abbia consegnato la tesi, yuhu!”.

ATTO III: Perché non lo hai domandato prima?
Una telefonata mi risveglia dallo stato letargico in cui sono caduta dopo la consegna. È la segreteria. Mi dice che c’è un problema con la copertina della mia tesi. Non avrei dovuto nominare l’università della cotutela, ma attenermi strettamente al facsimile che si trovava tra i documenti del benedetto plico. Gli dico che mi sembrava giusto citare le due università, dal momento che riceverò il titolo da entrambe le istituzioni. Lui dice di no, che mi sarei dovuta attenere al facsimile e non fare di testa mia. Gli rispondo che pensavo che quel facsimile si riferisse soltanto ai dottorandi che hanno studiato esclusivamente in Germania e non a quelli in cotutela. Lui allora mi fa spazientito: “Se era in dubbio perché non ha domandato prima?!”. Certo, come se non ci avessi provato.

Se avete in mente di fare il dottorato in Germania vi dico allora pensateci, pensateci bene. Scrivere la tesi non è nulla in confronto alle (dis)avventure che dovrete affrontare al momento della consegna! Però, ve lo garantisco, ne vale la pena.