Tre cose mi fanno
capire che sono arrivata in Sicilia:
La prima è
l’applauso dei passeggeri per il pilota dell’aereo dopo l’atterraggio. Se
volate verso qualsiasi meta europea che non si collochi nel più profondo
meridione italiano, quando l’aereo atterra non noterete nessun cambiamento
significativo nelle espressioni dei volti che vi circondano. Forse
sorrideranno, chi viaggia in coppia scambierà qualche parola con il compagno o
la compagna, quando il segnale luminoso si sarà spento slacceranno le cinture
di sicurezza e compostamente, dopo aver prelavato il bagaglio, si dirigeranno
verso l’uscita. Se, invece, la meta del vostro viaggio è la Sicilia, ve ne
accorgerete subito. Già quando la voce dell’hostess annuncia che tra pochi
minuti avranno inizio le manovre di atterraggio la tensione sull’aereo sale.
Facce eccitate guardano fuori dal finestrino per vedere la Sicilia diventare
sempre più vicina, fino a poter distinguere (e forse riconoscere) le strade, le
case. Quando finalmente l’aereo tocca il suolo scroscia un fragoroso applauso.
I bambini giubilano, le vecchiette tirano un sospiro di sollievo, tutti ridono
e iniziano a parlare forte. Prima ancora che il segnale luminoso si sia spento
slacciano le cinture, si alzano, cercando di recuperare il bagaglio tra il
marasma generale, accendono i telefoni e iniziano a gridare dentro gli
apparecchi a genitori, ziii, cugini, amici: “Arrivavu ora!”, “Unni si?”,
“Unni ni vidiemmu?”. Una volta,
seduta accanto a me c’era una coppia dall’accento del nord, credo lombardo, e,
parlottando tra di loro, avevano commentato questo spettacolo dicendo: “Sembra
che questi [scil. terroni] non
abbiano mai visto un aereo atterrare. Che bisogno c’è di applaudire? Il pilota
fa solo il suo lavoro!”. Da personcina razionale e un po’ snob quale sono, o
credo di essere, non applaudo nemmeno io l’impresa ben riuscita del pilota e,
in linea di principio, sono anche d’accordo con la coppia lombarda: a sentire
l’entusiasmo generale sembra che i passeggeri si sorprendano che il pilota sia
riuscito a portare a termine con successo le manovre di atterraggio. Tuttavia,
anche se non mi unisco attivamente a queste acclamazioni, una parte di me le
aspetta e sarebbe delusa se non fosse così. La Sicilia non è solo una regione,
ma un modo d’essere, e l’applauso dopo l’atterraggio mi comunica
definitivamente che sono arrivata “a casa”.
La seconda cosa
che mi fa capire di essere arrivata in Sicilia è guardare il mondo dall’alto in
giù: dopo l’atterraggio, infatti, se mi guardo intorno, all’altezza del mio
sguardo, vedo facce e non toraci, busti e (nel peggiore dei casi) pance. Mentre
in Germania, con il mio metro e sessanta, faccio parte della minoranza bassa
della popolazione e devo far fronte anche alle difficoltà che comporta il
vivere in un posto in cui tutto (architettura, arredamenti, abbigliamento…) è
fatto su misura per persone decisamente più alte di me (a casa mia, per
esempio, lo specchio del bagno è troppo in alto e devo ricorrere a sgabellini e
altri stratagemmi per truccarmi o semplicemente guardarmi in faccia), qui in
Sicilia la mia è un’altezza media e non di rado mi capita di parlare con donne
– ma anche uomini – più bassi di me. Sentirmi alta – è questa la prima
impressione che ho ogni volta che faccio ritorno nella mia terra.
La terza cosa non è un’osservazione, ma una
sensazione che non so bene spiegare. Lo ammetto, quando l’hostess annuncia che
l’aereo sta per atterrare anche io sono tra quelli che incollano il naso al
finestrino per guardare l’isola diventare sempre più vicina. Guardo l’ombra
dell’aereo che saetta sui campi gialli, bruciati dal sole rovente dell’estate e
il mio cuore ha un sussulto. Una forza di attrazione irresistibile mi tira
verso il posto che pure ho lasciato e in cui non vivrei. Mi tira come una corda
che diventa tanto più tesa quanto più cerco di ribellarmi. Mi tira verso il
posto che ho odiato, che mi stava stretto, che mi soffocava. Mi tira nel posto
da cui sono scappata. Mi tira nel luogo delle mille giustificazioni e delle
poche scuse. È il richiamo della terra, la voce minacciosa e rassicurante del
mare che dall’aereo non posso sentire, ma che mi parla direttamente al cuore se
solo guardo dall’alto il movimento delle onde. Si riscalda qualcosa dentro di
me, brucia ancora quella fiamma, non si è spenta. Per quanto io possa andare
lontano, per quanto io possa scappare, questa è la mia terra, questa terra sono
io: è parte di me come io di lei. E questo non cambierà mai.