venerdì 23 giugno 2017

È solo un ufficio (?)


Che cosa pensate quando sentite la parola “ufficio?”. La maggior parte di voi dirà che un ufficio è un luogo di lavoro: quattro pareti, una scrivania (con su magari la foto del compagno, del consorte o della prole incorniciata) e una brutta sedia con le ruote. Forse alcuni di voi rabbrividiranno. Un mio ex fidanzato nutriva un odio viscerale nei confronti degli uffici – sia quelli aziendali che quelli universitari. Quando una volta gli dissi che mi sarebbe forse piaciuto lavorare in una casa editrice mi rispose con sprezzo: “Non vorrai stare nove ore al giorno chiusa in un ufficio? Diventerai stupida!”. Così nel mio immaginario gli uffici erano dei posti grigi in cui le persone venivano derubate della loro fantasia, della loro leggerezza e trasformate in ombre grigie, in automi.
Quando, due anni fa, mi trasferii in Svizzera il mio prof. mi comunicò che avrei avuto un ufficio, da dividere con un’altra dottoranda, un post-doc e un professore. Mi vennero in mente le parole di quel mio ex ed ebbi un po’ paura. Secondo lui il lavoro che nasce sulla scrivania di un ufficio non è come quello che nasce tra le mura di casa o su un prato e io non volevo “mettere al mondo” una tesi di dottorato grigia e scialba.
La prima volta mi presentai in ufficio diffidente. C’era solo il post-doc alla sua scrivania, la tapparella era chiusa a metà, la luce accesa e c’era un leggero odore di polvere. La prima cosa che chiesi fu: “Ma devo per forza lavorare qui o posso andare anche in biblioteca?”. La risposta: “Puoi lavorare dove vuoi”. Incoraggiata da quelle parole (avevo quindi una via di fuga in caso di emergenza) presi posto in quella che da quel momento in poi sarebbe diventata la mia scrivania.
Mi dovetti ricredere sugli uffici e presto in quell’ufficio mi sentii più “a casa” che nella stanza presa in affitto, in cui avevo la mia roba e nel cui letto trascorrevo le mie notti. Le persone lì dentro diventarono la mia famiglia: imparai a conoscere bene i loro ritmi e le loro abitudini. Ascoltavamo l’opera durante le pause, facevamo lunghe chiacchierate sui nostri lavori e sulle nostre vite. La brutta sedia con le ruote si rivelò molto, molto comoda e su quella scrivania scrissi pagine tutt’altro che grigie della mia tesi. Pian piano iniziammo ad arredare quell’ufficio come se fosse davvero casa nostra: una spedizione punitiva all’IKEA et voilà, ecco che un divanetto era pronto ad accogliere le nostre schiene stanche per una (breve!) pennichella dopo pranzo o per leggere un libro in orizzontale. Ordinammo (e ottenemmo) un bel tavolo rotondo che posizionammo al centro della stanza e che si trasformò nella “tavola rotonda” della nostra lettura e traduzione settimanale dei Memorabili di Senofonte. Nel periodo dell’avvento prendemmo l’abitudine di fare insieme una corona, porla al centro di quel tavolo e, ogni settimana, accendere una delle quattro candele. Era così bello guardare la fiamma scoppiettante – e ogni tanto spegnevo la luce per immergermi meglio nella magia del fuoco. Infine (ma per fortuna non alla fine!) comprammo anche una caffettiera elettrica! Se tra di voi c’è qualche italiano capirà l’importanza dell’evento. Che bello non dovere più ingurgitare la brodaglia marrone al vago gusto di caffè della mensa o delle macchinette, ma bere un caffè denso e profumato sul divanetto dell’ufficio.


È stata dura, due anni dopo, separarmi da quel luogo.
Mi ha lasciata indifferente consegnare le chiavi della camera del convento (della vita in convento vi racconterò un’altra volta) che è stato il mio alloggio nell’ultimo anno; non mi ha immalinconita lasciare la finestra (che pure mi piaceva) che si affacciava sul chiostro, sulla chiesetta e sul pioppo alto e sottile – che si dipingevano di nero alla sera, rischiarati, nelle rare notti senza nubi, da una luna tutta tonda. Invece non sono riuscita a trattenere le lacrime mentre raccoglievo le ultime cose dalla mia scrivania. “È solo un ufficio” mi diceva lui, per consolarmi “è solo un posto dove si lavora”. Evidentemente non aveva capito nulla. Una parte di me sarà sempre legata a questo posto, nel quale sono cresciuta, ho imparato, ho creato, ho riso, ho vissuto – che è stato, per me, una casa. Prima di andare via ho lasciato due cose: una lettera sul tavolo rotondo e una lacrima sulla scrivania – chissà se qualcuno la raccoglierà. 

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