Che cosa pensate
quando sentite la parola “ufficio?”. La maggior parte di voi dirà che un
ufficio è un luogo di lavoro: quattro pareti, una scrivania (con su magari la
foto del compagno, del consorte o della prole incorniciata) e una brutta sedia
con le ruote. Forse alcuni di voi rabbrividiranno. Un mio ex fidanzato nutriva
un odio viscerale nei confronti degli uffici – sia quelli aziendali che quelli
universitari. Quando una volta gli dissi che mi sarebbe forse piaciuto lavorare
in una casa editrice mi rispose con sprezzo: “Non vorrai stare nove ore al
giorno chiusa in un ufficio? Diventerai stupida!”. Così nel mio immaginario gli
uffici erano dei posti grigi in cui le persone venivano derubate della loro
fantasia, della loro leggerezza e trasformate in ombre grigie, in automi.
Quando, due anni
fa, mi trasferii in Svizzera il mio prof. mi comunicò che avrei avuto un
ufficio, da dividere con un’altra dottoranda, un post-doc e un professore. Mi
vennero in mente le parole di quel mio ex ed ebbi un po’ paura. Secondo lui il
lavoro che nasce sulla scrivania di un ufficio non è come quello che nasce tra
le mura di casa o su un prato e io non volevo “mettere al mondo” una tesi di
dottorato grigia e scialba.
La prima volta mi
presentai in ufficio diffidente. C’era solo il post-doc alla sua scrivania, la
tapparella era chiusa a metà, la luce accesa e c’era un leggero odore di
polvere. La prima cosa che chiesi fu: “Ma devo per forza lavorare qui o posso
andare anche in biblioteca?”. La risposta: “Puoi lavorare dove vuoi”. Incoraggiata
da quelle parole (avevo quindi una via di fuga in caso di emergenza) presi
posto in quella che da quel momento in poi sarebbe diventata la mia scrivania.
Mi dovetti
ricredere sugli uffici e presto in quell’ufficio mi sentii più “a casa” che
nella stanza presa in affitto, in cui avevo la mia roba e nel cui letto trascorrevo
le mie notti. Le persone lì dentro diventarono la mia famiglia: imparai a
conoscere bene i loro ritmi e le loro abitudini. Ascoltavamo l’opera durante le
pause, facevamo lunghe chiacchierate sui nostri lavori e sulle nostre vite. La
brutta sedia con le ruote si rivelò molto, molto comoda e su quella scrivania scrissi
pagine tutt’altro che grigie della mia tesi. Pian piano iniziammo ad arredare quell’ufficio
come se fosse davvero casa nostra: una spedizione punitiva all’IKEA et voilà, ecco che un divanetto era
pronto ad accogliere le nostre schiene stanche per una (breve!) pennichella
dopo pranzo o per leggere un libro in orizzontale. Ordinammo (e ottenemmo) un
bel tavolo rotondo che posizionammo al centro della stanza e che si trasformò
nella “tavola rotonda” della nostra lettura e traduzione settimanale dei Memorabili di Senofonte. Nel periodo
dell’avvento prendemmo l’abitudine di fare insieme una corona, porla al centro di
quel tavolo e, ogni settimana, accendere una delle quattro candele. Era così
bello guardare la fiamma scoppiettante – e ogni tanto spegnevo la luce per
immergermi meglio nella magia del fuoco. Infine (ma per fortuna non alla fine!)
comprammo anche una caffettiera elettrica! Se tra di voi c’è qualche italiano
capirà l’importanza dell’evento. Che bello non dovere più ingurgitare la
brodaglia marrone al vago gusto di caffè della mensa o delle macchinette, ma
bere un caffè denso e profumato sul divanetto dell’ufficio.
È stata dura, due
anni dopo, separarmi da quel luogo.
Mi ha lasciata
indifferente consegnare le chiavi della camera del convento (della vita in
convento vi racconterò un’altra volta) che è stato il mio alloggio nell’ultimo
anno; non mi ha immalinconita lasciare la finestra (che pure mi piaceva) che si
affacciava sul chiostro, sulla chiesetta e sul pioppo alto e sottile – che si
dipingevano di nero alla sera, rischiarati, nelle rare notti senza nubi, da una
luna tutta tonda. Invece non sono riuscita a trattenere le lacrime mentre
raccoglievo le ultime cose dalla mia scrivania. “È solo un ufficio” mi diceva
lui, per consolarmi “è solo un posto dove si lavora”. Evidentemente non aveva
capito nulla. Una parte di me sarà sempre legata a questo posto, nel quale sono
cresciuta, ho imparato, ho creato, ho riso, ho vissuto – che è stato, per me, una
casa. Prima di andare via ho lasciato due cose: una lettera sul tavolo rotondo e
una lacrima sulla scrivania – chissà se qualcuno la raccoglierà.
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