martedì 19 settembre 2017

Avventura andalusa. Seconda tappa: Cordoba



È tempo di lasciare Siviglia. A malincuore rimetto nello zaino i libri, la mia (non sempre affidabile) guida crucca dell’Andalusia, le cartoline, un paio di regalini, i miei pochi indumenti e guardo per l’ultima volta la camera che per qualche giorno ho chiamato “casa”, suscitando l’ilarità e talvolta la simpatia dei miei interlocutori. Dopo aver accertato (a quanto pare anche la fisiognomica lo conferma) e accettato la mia condizione di straniera ovunque, mi sono arrogata il diritto di sentirmi a casa dappertutto, chiamando casa tutti i luoghi in cui mi sono insediata, in cui mi sono sentita bene. E a Siviglia mi sono sentita a casa.
Per una nomade, però, nessuna casa è definitiva, così raccolgo zaino e ricordi e mi dirigo alla stazione del bus. Prossima tappa: Cordoba.
Prendo posto sull’autobus spazioso. L’autista, dopo aver controllato i biglietti, accoglie ogni passeggero porgendogli un sacchetto di carta contenente: uno snack, una bottiglietta d’acqua e un paio di auricolari. Il lusso. Non mi era mai capitato di vedere un bus così chic: comodo e lindo, sedili in pelle reclinabili con poggiapiedi regolabile, piccolo schermo davanti a ogni sedile per guardare un film o ascoltare della musica – altro che gli autobus della compagnia verde risparmio che prendevo abitualmente per andare in Svizzera (con il wc rotto e puzzolente e i sedili squinternati)!
Rinuncio tuttavia a una fetta di questo lusso decidendo di ignorare lo schermo, indosso le cuffiette del mio inseparabile lettore mp3 e mi accomiato da Siviglia ascoltando ancora una volta Il Barbiere, che è la colonna sonora di questo mio viaggio.
Il paesaggio che scorre davanti ai miei occhi non è dissimile da quello che vedo dall’autobus che, in Sicilia, dall’aeroporto di Palermo mi porta alla stazione del mio paese, tanto che per un attimo, in uno stato di sonnolenza, mi sembra di vedere il profilo delle sue stranote case. Trasalisco. Poi mi ricordo di essere in Spagna e mi lascio cullare dal rumore del motore.
Guardando la cartina dell’Andalusia non mi ero resa conto di quanto fossero grandi le distanze tra una città e un’altra. O meglio: non potevo rendermi conto di quanto sembrassero grandi tali distanze, dal momento che sulla cartina non si vede che tra un centro abitato e l’altro non c’è niente – all’infuori di distese a perdita d’occhio di terra bruna e di campi bruciati dal sole. Dopo qualche ora di viaggio e qualche quarto d’ora di sonno faccio finalmente la conoscenza di Cordoba, la città dei Califfi, di Averroè e di Maimonide. Ad accogliermi ci sono 40 gradi e un sole che, nonostante siano appena le 10.30 del mattino, picchia e brucia e intimorisce i turisti più biondi che iniziano a ungersi di creme solari dall’odore pungente.
Dopo una piccola sosta in un bar, nel quale faccio colazione con pane e pomodoro e un zumo de naranja por favor, mi dirigo alla Mezquita, letteralmente il “luogo dove prostrarsi”, oggi nota come Grande Moschea o Moschea-Cattedrale. 

Non credo di avere mai visto nulla di più impressionante. Entro in quella che, a prima vista, mi sembra un’immensa moschea (al già imponente edificio originario, progettato dall’emiro Abd al-Raḥmān I, sono stati aggiunti tre grandi ampliamenti commissionati da ʿAbd al-Raḥmān II prima e da al-Ḥakam II dopo). Cammino tra arcate e colonne, per colore e forma tipiche dell’architettura islamica. I cunei bianchi e rossi e la ripetizione ritmica dei capitelli mi danno l’impressione che lo spazio si dilati all’infinito e che i confini siano irraggiungibili. 
 Ma proprio quando il mondo arabo mi ha rapita al mio e ho l’impressione di trovarmi non in Spagna ma in un racconto delle Mille e una notte, ecco che vedo una croce, un altare cattolico, una raffigurazione dell’ultima cena, la statua di un santo, quella della Madonna. Disorienta continuo a camminare fino a quando, improvvisamente, mi trovo sotto la cupola bianca e dorata della Cattedrale barocca. Lo stupore. L’incredulità. 

Con questo video vi mostrerò il percorso inverso, che vi porterà dalla Cattedrale fino all’ampliamento di Al-Hakam II, con le sue arcate polilobate e il dorato Mihrab, punto di riferimento per la preghiera dei musulmani: una nicchia a otto lati, delimitata da archi che rappresentano le porte per l’aldilà, attraverso le quali dovevano ascendere le preghiere dei fedeli, la quale termina in una cupola a conchiglia, simbolo della vita.

Questa insolita mescolanza di religioni e influenze, che oggi forse ci stupisce, sta invece alla base della cultura andalusa, luogo in cui hanno convissuto – ora in pace, ora in reciproca tolleranza, ora in guerra – religioni e culture diverse: si tratta infatti di un Paese dominato dapprima dal Califfato arabo-islamico e successivamente conquistato dall’estremo cattolicesimo europeo (non per niente Cordoba era sede di uno dei tribunali speciali dell’Inquisizione).

Tale convivenza di culture e religioni è testimoniata anche dalla presenza di un quartiere ebraico, la Juderia, ovvero l’antico ghetto abitato dagli ebrei fino a quando i Re Cattolici, nel XV secolo, li espulsero dalla città. È più grande della Juderia di Siviglia e in essa si trova anche una Sinagoga che dicono essere molto bella – cosa che purtroppo non ho potuto verificare con i miei occhi perché in estate tutti i principali siti di interesse a Cordoba (la Sinagoga, l’Alcázar e Museo Taurino – che pure non mi interessava) chiudono alle tre del pomeriggio. Continuo a passeggiare così perdendomi nelle stradine della Juderia, immaginando un tempo senza turisti in cui, in questi vicoli, in mezzo a queste case imbiancate a calce, filosofi arabi e pensatori ebrei hanno partorito e messo per iscritto le loro idee. Passo sognante attraverso la via dedicata ad Averroè. 


Senza accorgermene arrivo infine in Plaza de Tiberiades e mi imbatto in una figura familiare: si tratta della statua di Mosè Maimonide, autore della Guida dei perplessi, che avevo studiato durante il mio ultimo anno di università a Palermo e che mi aveva tanto impressionata. E siccome perplessa lo sono tutt’ora – e forse ancora più che in passato – tocco la punta della sua scarpa e intrattengo con lui una conversazione silenziosa e confidenziale.

Chissà, forse il tocco di quella scarpa renderà un po’ più saggia anche me.





Nessun commento:

Posta un commento