Ancora non mi
sono abituata a dire “ho tempo”, né tanto meno riesco a capacitarmi di averlo
davvero. È una sensazione che non provavo forse dai tempi della scuola, quando
arrivava giugno, l’edificio verdognolo, sede della mia scuola, chiudeva
finalmente i battenti e io e la mia famiglia partivamo per il mare dove restavamo
per un mese. Forse più a lungo? Non so dirlo: lì il tempo si dilatava, le
giornate scorrevano lente tra passeggiate sulla spiaggia e lunghi bagni al
mare, facendo il morto a galla quando il vento non c’era e l’acqua era uno
specchio limpido o tuffandosi tra le onde quando c’era aria di tempesta,
ignorando le urla di mia madre che mi intimava di non allontanarmi troppo.
Avere tempo. Allora
non avevo né un’agenda, né un orologio – non posso più immaginare quale fosse
la mia concezione del tempo laggiù.
Da quando ho
iniziato l’università, invece, il mio tempo è stato scandito da lezioni, tesine
e sessioni di esami e l’estate ha smesso di avere la forma dell’orizzonte e
l’odore del mare. Triennale, specialistica, corsi estivi di tedesco, domande
per borse di studio, ancora una laurea e poi il dottorato. Un tempo che non ho
contato in giorni e mesi, ma in scadenze. Negli anni del dottorato, poi, non è
cambiato soltanto il mio modo di percepire il tempo, ma anche lo spazio. I
confini intorno al mio corpo si sono ristretti, mentre cercavo di allargare
quelli della mia mente. Così il mio mondo consisteva quasi esclusivamente nel
circuito stretto che mi portava da casa al mio ufficio o in biblioteca.
L’università era la mia città e i suoi corridoi le mie strade. Mi sapevo
orientare, mi sentivo padrona di quegli spazi. La rigida disciplina che mi ero
imposta mi permetteva solo di rado di “sgarrare” e uscire da quel circuito per
un pomeriggio o per qualche giorno di vacanza. Tuttavia anche in quelle rare
occasioni non ho avuto l’impressione di “avere tempo” davvero, di averne legale
possesso. Mi sembrava piuttosto di averlo rubato, che non fosse mio e che avrei
dovuto renderne ragione.
Poi, finalmente, ho
consegnato la tesi.
Devo ammettere
che questo momento me lo ero immaginata diverso. Non so, più trionfale, forse,
più enfatico. Invece tutto si è ridotto nel posare sul pavimento della
segreteria quattro esemplari del mio lavoro, stampato e rilegato. Pensavo che
dopo aver consegnato mi sarei sentita più leggera, più felice. Invece mi sono
sentita solo un po’ persa e vuota, come un calzino rigirato. Uscendo dalla
segreteria mi sono guardata intorno e ho capito di avere tempo e di avere
riacquistato anche lo spazio, ma che non sapevo dargli un senso.
Bandita dalla mia
città universitaria, confiscatemi le chiavi dell’ufficio che per me era casa,
ho aperto gli occhi su una città che, seppur piccola, mi è apparsa
improvvisamente immensa. Così, dopo la consegna, sono caduta in uno stato di
profonda letargia. Mi sentivo debole e pensavo che da un momento all’altro mi
sarei ammalata davvero. Ho trascorso una settimana tra divano del salotto e il balcone,
sonnecchiando, osservando i tetti delle case, ascoltato le voci della vita
fuori che non aveva affatto il ritmo del mio languido dormiveglia. Poi, piano
piano, ho iniziato a sentirmi meno stanca, mi sono risvegliata da quello strano
letargo e ho cercato di riadattare il mio corpo e la mia mente a questo spazio
più grande e questo tempo nuovamente dilatato. Posso dire “ho tempo” e questo
tempo mi appartiene, posso viverlo senza scadenze.
Potrei imparare
una nuova lingua o mandare a memoria altri versi dell’Orlando furioso (dove ero arrivata?), potrei fare un viaggio
prenotando il biglietto di andata e non quello del ritorno, potrei
semplicemente leggere Der Radetzkymarsch sul balcone con le gambe al sole (da
quanto tempo, poi, non mi abbronzavo?), potrei andare al mare e fare il morto a
galla guardando il cielo, andare in bici verso un luogo, poi cambiare idea e
proseguire per un’altra strada. Potrei decidere di fare qualcosa sul momento,
improvvisando. Non mi ricordo nemmeno quando è stata l’ultima volta che l’ho
fatto – e l’ho fatto? Avere tempo, che strana novità.
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