domenica 20 agosto 2017

La scalata (1° parte)


La sveglia suona alle 4:00 del mattino accompagnata dai quattro secchi rintocchi della campana della chiesa del villaggio e mi strappa dal mondo sognato per riportarmi in quello reale. Ci metto qualche secondo per ricordarmi dove sono e perché la sveglia suona mentre fuori è ancora buio.
La scalata, giusto.
A tastoni cerco gli occhiali, li trovo e il inforco. Sento le sveglie suonare anche nella camera accanto alla mia e in quella di sopra, sbadigli, rumore di passi sul pavimento di legno scricchiolante della casa di montagna. Pochi minuti e la casa si anima: un viavai su e giù per le scale, voci stranote, accenti stranieri. Borracce, corde, torce. “Dimentico niente?” “Chi ha preso le mele?” “Ricordate di prendere i documenti: passeremo il confine”. Siamo pronti. Esco per prima di casa e l’oscurità mi ingoia. L’aria è fredda e mi pizzica la pelle. Tiro su il cappuccio della mia giacca a vento azzurra. Osservo il profilo delle Alpi imponenti, misteriose, minacciose. Dei giganti muti e immobili. Mi sembrano mura invalicabili – riuscirò davvero oggi ad arrivare fin lassù? 


Ci mettiamo in macchina e guidiamo fino a un paese vicino, da dove inizia il sentiero del nostro percorso. “Lass uns gehen, andiamo” dice la nostra guida e ci immergiamo nel bosco.
Il sole non ha ancora rischiarato le cime e queste prime ore del mattino hanno ancora i colori della notte. Accendiamo le torce frontali per non inciampare in qualche sasso o radice sulla via. Intorno a noi il bosco vive: sentiamo i rumori degli animali che fuggono sentendoci arrivare, che ci osservano guardinghi nascosti dietro ai cespugli. Qualche uccello canta, c’è odore di foglie umide e di terreno. Lui ci precede con passo deciso sul sentiero in salita, sicuro e veloce, quasi camminasse su una strada pianeggiante. Io arranco un po’ e lotto ancora contro il sonno, ma riesco a tenergli dietro.
La salita è dura: sento gli scarponi da trekking che strofinano dolorosamente i miei talloni, i quattro chili liquidi che porto sulle spalle – la riserva d’acqua della nostra avventura – rendono più pesanti i miei passi. Piano piano il sole si affaccia sulle cime. Mi fermo per guardare il mondo che prende colore, le forme delinearsi: uno spettacolo meraviglioso che non avevo visto prima, mai. Rimango qualche minuto ferma, imbambolata. 


 Schnell, veloce” mi dicono da dietro: dobbiamo sbrigarci a salire prima che il sole inizi a bruciare. Giusto, andiamo. Lentamente superiamo il limite del bosco. Niente più alberi intorno a noi, solo piccoli cespugli, fiori alpini, rocce. Mi sono già liberata della torcia frontale e della giacca a vento. Ormai il sole è alto nel cielo, ma tira vento e non sentiamo la potenza dei suoi raggi.  
Finalmente facciamo la prima pausa. Mai l’acqua mi è sembrata così fresca, mai una mela così succosa e fragrante. La mordo e la mastico guardando il panorama e non mi pento di avere abbandonato alle 4 del mattino il tepore del letto. Anche gli altri stanno mangiando: chi seduto su una roccia, chi sdraiato sull’erba. 
Manca però ancora un bel po’ alla cima così, nonostante i piedi già doloranti e le gambe stanche ci rimettiamo in cammino. Sono le 12:30 quando arriviamo a una biforcazione: un sentiero porta in basso e poi nuovamente in salita verso la nostra meta e un altro (che si riconosce appena tra l’erba e i cespugli) che si inerpica su per la montagna e più che un percorso da trekking sembra un sentierino per capre. E infatti eccole lì le capre, in alto, sopra di noi, che mangiano tranquille o si rilassano sotto il sole appollaiate su rocce decisamente in bilico – mi vengono le vertigini solo a guardarle! All’improvviso, in mezzo a tutto quel belare, sentiamo una voce umana. Alziamo lo sguardo e finalmente distinguiamo la figura di un pastore: un ragazzetto di sedici anni o giù di lì che corre su e giù senza sforzo apparente sul sentiero ripidissimo per raccogliere le capre e riportarle a valle. Mi torna in mente Peter del cartone animato Heidi, che guardavo da bambina. Improvvisamente mi sento goffa e pesante: a guardare lui sembra così facile inerpicarsi per quei sentieri di montagna, mentre io avevo faticato tanto (e fino a quel momento ero anche abbastanza orgogliosa della mia prestazione) per arrivare fin lì. Ma tant’è. Cancello mentalmente “pastorella” dalla lista dei lavori che potrei fare “da grande” e saluto il professionista. Lui ci saluta di rimando e ne approfittiamo per chiedere informazioni sui sentieri. Lui ci dice: la via che va in discesa e poi nuovamente in salita è molto più lunga, ma sicuramente più facile e più bella. L’altra via (il sentierino per capre, per intenderci) è più breve, ma molto più pericoloso. Detto questo sparisce in quattro balzi, insieme alle sue capre. Noi ci guardiamo un po’ titubanti ­ che cosa fare? 
Dopo qualche minuto di esitazione decidiamo, quasi unanimemente, di tentare la fortuna su per il sentiero delle capre…

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