martedì 8 agosto 2017

Straniera: una forma di vita (1° parte)


Poter dire "sono a casa"


Da quasi sette anni non vivo più in Italia. L’entusiasmo iniziale mi aveva fatto credere – che imbroglio! – che non avrei sentito nostalgia di “casa mia”, che le ragioni che mi avevano fatta partire non potevano essere messe in discussione, che il Paese che mi aveva accolta incarnasse una sorta di terra promessa in cui sarebbe stato possibile realizzare i miei sogni. C’era la novità, c’era l’amore. Alle mie spalle lasciavo un posto grigio – che pure è chiamato “terra di maggio” – promesse non mantenute, lavori non retribuiti, un mondo universitario poco trasparente con gerarchie tutte sue. Davanti a me immaginavo, sognavo – quindi vedevo – un futuro in cui tutto era possibile. Poi c’era il divertimento di imparare una lingua nuova, esperienza che mi faceva tornare un po’ bambina. Imparare parole, imparare a pronunciarle, attribuire loro significati, ritrovare l’origine dei significati nella cultura, comporre frasi sempre più complesse giocando con le costruzioni grammaticali. Sapevo di essere straniera, ma collegavo questa mia condizione, questa forma di vita, al piacere della scoperta. Ovvio che ero diversa dagli indigeni che abitavano la città in cui io mi ero insidiata, ma io non avevo nessuna pretesa di essere come loro.
Gli anni però sono passati, tutto – in me e intorno a me – si è modificato con rotture, svolte, rivoluzioni, rimarginamenti più o meno radicali, più o meno improvvisi, più o meno dolorosi. Quella lingua ostica all’inizio che avevo principiato a imparare quasi per gioco, ma con una determinazione che ha sorpreso anche me, ha piano piano trovato un posto definitivo nel mio cervello. Le regole, le parole, le formule mi sono diventate familiari, i significati nuovi hanno messo in discussione quelli vecchi, come piccole scosse di un terremoto. Ho distrutto, ricostruito, rotto, risanato, fatto nuovo – buttato via niente. Ho studiato ancora qui, finito un dottorato. Ho qui la mia vita – ma è casa mia?
Essere riuscita a integrarmi, invece di farmi sentire finalmente a casa, ha sortito l’effetto contrario. Il mio essere straniera non mi sembra più un gioco edificante. Il luogo in cui vivo ha perso l’alone d’incanto. È un posto che, certo, manterrà le promesse che mi ha fatto, è un posto più leale di quello che ho lasciato – ma mi farà felice? Guardo, osservo le persone intorno a me e mi dico che non sarò come loro, mai. E lo sapevo fin dall’inizio – solo che allora non m’importava. Per quanto parlerò bene questa lingua, arriverà il giorno in cui riuscirò a sentire davvero la bellezza della lingua bella, provare il piacere estetico della scrittura che sento quando scrivo in italiano? Resterò sempre una creatura esotica, interessante più per la mia provenienza che per quello che penso, quello che sono? A casa parlo in tedesco e, sentendomi parlare, ogni tanto mi sento finta, costruita. Straniera.
Quale posto posso allora chiamare casa? Ho voluto fare un viaggio in Sicilia per tornare all’origine, capire se casa mia è ancora quella. Invece di ritrovare un luogo in cui riconoscermi, sono inciampata sulla via su tutti i motivi che mi hanno spinta ad andare. In Sicilia non riuscivo a pensare un pensiero fino in fondo, non riuscivo a pensare nemmeno un po’. Troppo rumore, dentro e fuori. Il chiacchierio quasi gridato, ininterrotto, inconcludente si imponeva alle mie orecchie disarmate e raggiungeva la cassa cranica, in cui diventava un rumore indistinto, un ronzio che ovattava i pensieri e i sensi. Perché questo bisogno di parlare senza dire nulla? Perché questa paura del silenzio? Ricordo il senso di libertà che mi ha investita quando ho lasciato questo posto e il ronzio dentro la testa piano piano si è attenuato fino a scomparire, l’ovatta dentro la testa si è dissolta lasciando che la percezione si acuisse. Mi sono stupita quando ho sentito, per la prima volta limpida, la voce del mio pensiero. Sono tornata, così, e mi sono accorta che anche per questo posto, ormai, sono diventata straniera. Osservavo le persone e le cose, ascoltavo i problemi dei miei cari, ma quelle cose, quei problemi ormai non li capivo più. Non li vivevo più da dentro: stranieri a me come io a loro, come me in Germania. Non c’è via di scampo: straniera dappertutto ormai.
Decido di partire ancora – ostinata a trovare quel posto che potrò chiamare casa.

2 commenti:

  1. Ti vogliamo bene quando sei in Sicilia, vicina , come quando sei lontana, in Germania. Straniera, qui o lì, ma non per chi ti vuole bene, mai. Anna ed Enzo

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  2. Non sapevo che tu avessi un blog, l'ho scoperto solo adesso e mi piace un sacco! Soprattutto questo articolo! Non sai quanto ti capisco, nonostante le nostre situazioni siano diverse, ma quel conflitto d'identità, quella strana ricerca del concetto "casa" li conosco molto bene. Spero di rivederti presto! Un abbraccio, Gloria

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