giovedì 17 agosto 2017

Di nuovo in Svizzera



La Svizzera. Lo “Stato cuscinetto” lo chiamavo da bambina, come mi avevano insegnato a scuola. E me la immaginavo così: un cuscino ammortizzante tra l’Italia, la Germania, la Francia e il Liechtenstein. Di più non sapevo e nemmeno mi incuriosiva questo Paese che pensavo senza personalità.
Una vaga idea della Svizzera me l’aveva data il famoso cartone animato Heidi: la bambina paffuta che viveva in una baita sperduta sulle Alpi insieme al nonno e che, in virtù di chissà quali poteri speciali non meglio esplicitati, riusciva a fare alzare la paraplegica Clara dalla sedia a rotelle e insegnarle a camminare. 



Ma erano informazioni di un cartone animato – e sapevo che non bisognava prestar fede alla televisione. Si trattava di un’immagine come un’altra, montagne che avrebbero potuto essere ovunque, caprette come le vedevo anche in campagna vicino a casa mia. C’era la neve, è vero – e della neve in Svizzera mi avevano raccontato anche i miei nonni, che lì avevano vissuto e lavorato per cinque anni. Ma anche la neve per me non aveva consistenza ed esisteva  solo nell’immaginario, come l’altalena di Heidi che dondolava sospesa al nulla. Ne avevo sentito parlare, l’avevo vista ogni tanto in tv, ma mai dal vivo, quindi non potevo associarle sensazioni tattili od olfattive. Non sapevo, per esempio, cosa si provasse a fare sciogliere sulla lingua un fiocco di neve appena caduto dal cielo o da dove cominciare per fare un pupazzo di neve. La prima volta che vidi la neve avevo già 21 anni ed ero a Milano, ma questa è un’altra storia.
I miei nonni sono emigrati in Svizzera per lavorare quando mia mamma aveva quindici anni e mio zio sei. Li hanno lasciati in Italia perché mio nonno desiderava rimpatriare in Sicilia dopo aver lavorato oltralpe e messo da parte un po’ di soldi e temeva che i figli si sarebbero opposti alla sua volontà se avessero iniziato ad andare a scuola lì, avessero imparato il tedesco e si fossero ambientati. Infatti la Svizzera è rimasta per i nonni solo una (relativamente) breve parentesi lavorativa e, almeno per mia mamma, un luogo incantato, con casette di legno, giardini curati e neve, tanta neve in inverno, in cui trascorrere le vacanze evadendo dall’austero collegio di suore in cui viveva, invece, durante l’anno scolastico. Sembrava dunque che fosse finita così: nonno e nonna tornati in Sicilia prendendo con sé i figli e io nata in Sicilia e cresciuta in un paese in cui non c’era nemmeno una libreria – chi avrebbe pensato che il destino svizzero avrebbe reclamato me?
Eppure è così: anche se sulla Svizzera non avevo mai fantasticato davvero, anche se non avevo mai immaginato né di andarci né tantomeno di viverci, eccomi di nuovo qui. Perché tutto – lo studio, l’università, il cuore e anche le vacanze – mi ci tirano dentro, anche se mi allontano.
La prima cosa che mi viene in mente quando penso alla Svizzera non ve la dico: è troppo personale. La seconda cosa sono le Alpi. Ne avevo una vaga immagine nella testa, ma la prima volta che le ho viste da qui – da questo villaggio con dodici case, due stalle, una chiesetta e nient’altro nei Grigioni, in cui mi trovo adesso (nei pressi del quale, peraltro, è ambientato il cartone animato Heidi, di cui ho parlato sopra) – ho avuto paura. Non una paura superficiale, di quelle che ti fanno cavare un urlo e fare un balzo di lato, ma una paura che ti attanaglia le viscere e ti immobilizza. È stata circa quattro anni fa la prima volta che sono venuta qui e quella sensazione di paura la sento ancora nello stomaco. Stavo lì, in piedi sulla collina, facevo correre lo sguardo tutto intorno e non uno spiraglio, non una fenditura tra quelle montagne immense mi suggeriva che c’era qualcos’altro – un’altra città, un mondo, forme di vita non vegetali – oltre il loro confine. Io che venivo dall’isola, dal posto in cui il sole brucia la terra e tutto quello che sulla terra cresce, abituata a far saettare lo sguardo nell’orizzonte del mare, ho avuto l’impressione che le Alpi me lo rubassero, l’orizzonte, che mi togliessero il respiro, mi opprimessero con la loro grandiosità. E poi erano belle. Di una bellezza come non l’avevo mai vista. Maestose, imponenti, selvagge. Con la punta solleticavano il cielo, sembravano a un passo da Dio, dal Paradiso o da tutto quello in cui crede, chi crede. Non per nulla i Greci avevano immaginato la residenza degli dèi sul Monte Olimpo. Si potrebbe essere più vicini al divino di così? 


Di questa sensazione di oppressione ne ho parlato con gli svizzeri: come si fa a vivere circondati da queste imponenti mura innevate?, ho chiesto. Qualcuno mi ha risposto che gli danno una sensazione di sicurezza, di protezione (e forse proprio nelle Alpi – che proteggono, chiudono ed escludono – è da cercare l’origine della politica adottata da questo Paese), qualcun altro mi ha detto che gli mettono voglia di scalarle per vedere il mondo da lassù.
Io non lo so: non sono svizzera, vengo dal mare. Ma voglio provare ad affrontarli questi giganti – e lo farò domani.

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