mercoledì 31 maggio 2017

Tempo di addii


Non ho mai avuto una grande comprensione per gli italiani che, all’estero, hanno esclusivamente amici italiani, rifiutano di imparare la lingua locale o di parlare quantomeno una lingua franca e criticano costantemente il paese straniero che li ospita, decantando invece, per contrasto, tutte le qualità del Belpaese e, naturalmente, degli stessi italiani. Certo anche io ho amici italiani e non disdegno affatto di intrattenermi con qualcuno nella mia madre lingua (anzi: quando la “nostalgia di casa”, Heimweh, si fa più forte, sento proprio la necessità di parlare in italiano con qualcuno); ma ogni volta che mi sono impiantata in un Paese nuovo ho avuto voglia di fare amicizia (o almeno provarci!) con gli indigeni – e non per mera curiosità antropologica – di imparare la lingua, di immergermi nei nuovi colori, profumi e suoni (sarà forse autosuggestione, ma adesso mi sembra di riconoscere, guardando il colore e “l’altezza” del cielo, se mi trovo in Sicilia, in Lombardia, in Elvetia o in Alemagna). Non ho mai capito, così, gli italiani che, all’estero, riproducono una piccola Italia molto esclusiva, un gruppo chiuso e sigillato ermeticamente che non lascia entrare niente e nessuno che sappia di straniero.
Non li ho mai capiti fino ad ora, nel momento degli addii. Adesso che il mio tempo tra le Alpi sta volgendo al termine mi dico che sarebbe stato più facile se avessi fatto anch’io così, se mi fossi chiusa dentro e avessi disprezzato l’estraneo, crogiolandomi nella nostalgia di “casa” (che poi, che cosa e dove sia la mia casa, a dirla tutta, non lo so neppure io). E invece mi sono aperta a tutto: cose, persone, paesaggi, gesti – ho imparato ad amarli, li ho fatti entrare nel cuore. E adesso fa male dire: “Teniamoci in contatto” o “Tanto ci rivedremo presto”, mentre so bene che dietro queste frasi quasi sempre si nasconde un lapidario “Addio”, fa male mettere via tutte le mie cose dalla “mia” scrivania, che tra pochi mesi sarà occupata da un’altra persona e che non avrà più niente di me, dare indietro le chiavi, lasciare la finestra dalla quale facevo viaggiare lo sguardo, lasciare il sapore dell’aria e quello dei sogni. Oggi la mia amica svizzera mi ha detto: “Non preoccuparti: si chiude una porta e se ne apre un’altra”, in Italia si dice: “Se si chiude una porta si apre un portone” – anche se mi sono sempre chiesta perché la chiusura di una porta piccola comporti l’apertura di una più grande o perché un portone debba essere preferibile a una porta. Tant’è. Ripenso a tutte le volte che mi sono lasciata alle spalle qualcosa e cerco di aguzzare lo sguardo e scrutare l’orizzonte nel tentativo di scorgere un indizio, di anticipare il destino. Mi accorgo che in me (anche adesso come in passato) la curiosità vince la paura dell’ignoto. Così chiudo piano piano questa porta nell’attesa che si apra il famoso portone (o porticina, o porta a soffietto, o finestra, o, chissà, saracinesca) che mi faccia entrare nel futuro.  

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