martedì 16 maggio 2017

Il sangue della scassinatrice


È un sabato sera qualunque e sto guardando un film sul divano di casa, quando, intorno alle 23:00, suonano alla porta. Trasalisco: non aspetto nessuno. Suonano ancora, incuriosita mi alzo e vado ad aprire. È la vicina del piano di sopra. Mi dice che non riesce a entrare in casa: la chiave gira a vuoto nella toppa. Mi chiede se posso provare io ad aprire la porta o se, eventualmente, può fermarsi a dormire da me. – Certamente, le dico, e salgo con lei la rampa di scale che separa le nostre due abitazioni. Infilo la chiave nella toppa, provo e riprovo, la tiro avanti e indietro poi la giro ancora e – tac! – si apre. La vicina mi ringrazia ripetutamente, poi mi guarda con un sorrisetto ammiccante e dice in italiano (con il classico accento da macchietta ricalcato dai film di mafia che usano i tedeschi che non parlano l’italiano quando vogliono dire qualcosa che ritengono faccia italiano – come “ma che cazzo dici?!” oppure “ciao bella!”): “Siciliana!”. Quest’esclamazione mi colpisce e per un attimo sono indecisa se esserne offesa o divertita; alla fine propendo per la seconda: la mia vicina voleva essere simpatica e non offendermi. Così sorrido, le auguro la buonanotte e vado a casa.
La mia provenienza dal più profondo meridione italiano è un marchio pieno di cliché. Visto che sono siciliana dovrei saper fare gli arancini o comunque cucinare bene pietanze mediterranee a base di pesce, aglio e olio d’oliva; visto che sono siciliana sono giustificata se non so sciare, ma dovrei saper nuotare come un delfino, perché “tanto sei cresciuta al mare!” (perché nessuno tiene conto che in Sicilia ci sono anche i paesi dell’entroterra); visto che sono siciliana dovrei sopportare bene il caldo; visto che sono siciliana dovrei avere almeno un parente mafioso (altrimenti il mio pubblico nordico è deluso o inizia a mettere in dubbio la mia provenienza), visto che sono siciliana ho il sangue della scassinatrice. Un’accozzaglia di cliché dunque: una mafiosa, provetta nuotatrice e angelo del focolare. Quest’immagine mi diverte.
Questa storia però me ne porta alla memoria un’altra, un po’ più lontana. 


Quando avevo diciotto anni mi sono trasferita dal mio paesello dell’entroterra siciliano a Palermo, che per me allora non era solo una città, ma rappresentava il mio sogno di libertà: finalmente avrei lasciato la casa dei miei, un piccolo paese di provincia che mi soffocava, finalmente avrei studiato all’università, conosciuto persone nuove, mi sarei, forse, sentita al posto giusto – o per lo meno non più completamente fuori posto. Non avevo moltissimi soldi a disposizione, ma tant’è, l’entusiasmo era tale che mi sarei adattata a tutto. Prendo in affitto una camera in un appartamento condiviso con altre tre ragazze, al primo piano di una grande palazzina. Il quartiere non era dei più in: non era certo pericoloso come quelli mostrati in Gomorra (che non ho mai visto, ma che posso immaginare dalle descrizioni di amici appassionati di serie tv), ma ogni settimana, sulla via di casa, c’era qualche macchina carbonizzata (“autocombustione” mi spiegava la mia coinquilina palermitana di fonte la mia faccia incredula e un po’ spaventata – doveva pensare che io fossi molto ingenua, e in effetti allora lo ero), qualche saracinesca di attività commerciali “sigillata”, qualche “fermo” e qualche scippo. Questa realtà, nel mio piccolo paese, non l’avevo mai vissuta, ma fin da bambina tutti mi avevano ripetuto quanto fosse pericolosa Palermo, così quello che vedevo non era nulla più di quanto mi aspettassi.
Nello stabile dove ho vissuto per tre anni c’era un cancello blindato davanti all’ingresso di ogni pianerottolo, che proteggeva così gli appartamenti da eventuali ladri. Una volta, di ritorno dall’università, il cancello del mio pianerottolo non si apriva: io non riuscivo ad entrare e la mia coinquilina palermitana non riusciva ad uscire – e, con lei, neanche gli inquilini degli altri due appartamenti del nostro piano. Tra il panico generale mi offro di andare da un ferramenta (l’efficientissimo Schlüsseldienst, in Germania) per risolvere il problema. La mia coinquilina mi dice: “No, vai piuttosto al sesto piano e cerca il signor Taldeitali: lui sicuramente saprà aiutarci”. Così salgo al sesto piano pensando, nella mia ingenuità, che Taldeitali avesse una ferramenta, fosse un fabbro o qualcosa del genere. Suono il campanello, mi apre un vecchietto distinto. Gli spiego il problema, lui gentilmente mi dice di aspettare e va a prendere i suoi attrezzi. Scende insieme a me chiacchierando del più e del meno. Arriviamo al primo piano, saluta gli inquilini “imprigionati” dietro le sbarre del cancelletto e si mette all’opera. Prende un seghetto, una lima e una tronchese, zac zac, meno di cinque minuti et voilà! Ha tagliato una chiave a metà, l’ha limata un po’, due colpetti alla serratura e il cancello si apre senza sforzo. Lo guardo ammirata, ma nessun altro, a parte me, sembra stupito. Alla fine lui si accomiata raccomandandoci di cambiare al più presto la serratura. Entriamo in casa e dico alla mia coinquilina “Che bravo il signor Taldeitali! È del mestiere?” e lei mi risponde con naturalezza “Sì, è uno scassinatore!”. Fantastico, mi dico ironicamente, lo scassinatore gentiluomo. Anche quella volta, per un attimo, non sapevo se essere indignata o divertita – e anche quella volta ho optato per la seconda.
So che con questa storia avrò confermato almeno una dozzina di cliché sulla Sicilia: ma è stato solo un episodio sporadico. Quello è stato l’unico scassinatore che io abbia mai conosciuto a Palermo, lo giuro!

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