È un sabato sera qualunque e sto guardando un film sul divano di casa, quando, intorno alle 23:00, suonano alla
porta. Trasalisco: non aspetto nessuno. Suonano ancora, incuriosita mi
alzo e vado ad aprire. È la vicina del piano di sopra. Mi dice che non riesce a
entrare in casa: la chiave gira a vuoto nella toppa. Mi chiede se posso provare
io ad aprire la porta o se, eventualmente, può fermarsi a dormire da me. – Certamente,
le dico, e salgo con lei la rampa di scale che separa le nostre due abitazioni.
Infilo la chiave nella toppa, provo e riprovo, la tiro avanti e indietro poi la
giro ancora e – tac! – si apre. La
vicina mi ringrazia ripetutamente, poi mi guarda con un sorrisetto ammiccante e
dice in italiano (con il classico accento da macchietta ricalcato dai film di
mafia che usano i tedeschi che non parlano l’italiano quando vogliono dire
qualcosa che ritengono faccia italiano
– come “ma che cazzo dici?!” oppure “ciao bella!”): “Siciliana!”. Quest’esclamazione mi colpisce e per un attimo sono
indecisa se esserne offesa o divertita; alla fine propendo per la seconda: la
mia vicina voleva essere simpatica e non offendermi. Così sorrido, le auguro la
buonanotte e vado a casa.
La mia
provenienza dal più profondo meridione italiano è un marchio pieno di cliché. Visto che sono siciliana dovrei
saper fare gli arancini o comunque cucinare bene pietanze mediterranee a base
di pesce, aglio e olio d’oliva; visto che sono siciliana sono giustificata se
non so sciare, ma dovrei saper nuotare come un delfino, perché “tanto sei
cresciuta al mare!” (perché nessuno tiene conto che in Sicilia ci sono anche i paesi
dell’entroterra); visto che sono siciliana dovrei sopportare bene il caldo; visto
che sono siciliana dovrei avere almeno un parente mafioso (altrimenti il mio
pubblico nordico è deluso o inizia a mettere in dubbio la mia provenienza),
visto che sono siciliana ho il sangue della scassinatrice. Un’accozzaglia di cliché dunque: una mafiosa, provetta
nuotatrice e angelo del focolare. Quest’immagine mi diverte.
Questa storia
però me ne porta alla memoria un’altra, un po’ più lontana.
Quando avevo diciotto anni mi sono trasferita dal mio paesello dell’entroterra siciliano a Palermo, che per me allora non era solo una città, ma rappresentava il mio sogno di libertà: finalmente avrei lasciato la casa dei miei, un piccolo paese di provincia che mi soffocava, finalmente avrei studiato all’università, conosciuto persone nuove, mi sarei, forse, sentita al posto giusto – o per lo meno non più completamente fuori posto. Non avevo moltissimi soldi a disposizione, ma tant’è, l’entusiasmo era tale che mi sarei adattata a tutto. Prendo in affitto una camera in un appartamento condiviso con altre tre ragazze, al primo piano di una grande palazzina. Il quartiere non era dei più in: non era certo pericoloso come quelli mostrati in Gomorra (che non ho mai visto, ma che posso immaginare dalle descrizioni di amici appassionati di serie tv), ma ogni settimana, sulla via di casa, c’era qualche macchina carbonizzata (“autocombustione” mi spiegava la mia coinquilina palermitana di fonte la mia faccia incredula e un po’ spaventata – doveva pensare che io fossi molto ingenua, e in effetti allora lo ero), qualche saracinesca di attività commerciali “sigillata”, qualche “fermo” e qualche scippo. Questa realtà, nel mio piccolo paese, non l’avevo mai vissuta, ma fin da bambina tutti mi avevano ripetuto quanto fosse pericolosa Palermo, così quello che vedevo non era nulla più di quanto mi aspettassi.
Quando avevo diciotto anni mi sono trasferita dal mio paesello dell’entroterra siciliano a Palermo, che per me allora non era solo una città, ma rappresentava il mio sogno di libertà: finalmente avrei lasciato la casa dei miei, un piccolo paese di provincia che mi soffocava, finalmente avrei studiato all’università, conosciuto persone nuove, mi sarei, forse, sentita al posto giusto – o per lo meno non più completamente fuori posto. Non avevo moltissimi soldi a disposizione, ma tant’è, l’entusiasmo era tale che mi sarei adattata a tutto. Prendo in affitto una camera in un appartamento condiviso con altre tre ragazze, al primo piano di una grande palazzina. Il quartiere non era dei più in: non era certo pericoloso come quelli mostrati in Gomorra (che non ho mai visto, ma che posso immaginare dalle descrizioni di amici appassionati di serie tv), ma ogni settimana, sulla via di casa, c’era qualche macchina carbonizzata (“autocombustione” mi spiegava la mia coinquilina palermitana di fonte la mia faccia incredula e un po’ spaventata – doveva pensare che io fossi molto ingenua, e in effetti allora lo ero), qualche saracinesca di attività commerciali “sigillata”, qualche “fermo” e qualche scippo. Questa realtà, nel mio piccolo paese, non l’avevo mai vissuta, ma fin da bambina tutti mi avevano ripetuto quanto fosse pericolosa Palermo, così quello che vedevo non era nulla più di quanto mi aspettassi.
Nello stabile dove
ho vissuto per tre anni c’era un cancello blindato davanti all’ingresso di ogni
pianerottolo, che proteggeva così gli appartamenti da eventuali ladri. Una
volta, di ritorno dall’università, il cancello del mio pianerottolo non si
apriva: io non riuscivo ad entrare e la mia coinquilina palermitana non
riusciva ad uscire – e, con lei, neanche gli inquilini degli altri due
appartamenti del nostro piano. Tra il panico generale mi offro di andare da un
ferramenta (l’efficientissimo Schlüsseldienst, in
Germania) per risolvere il
problema. La mia coinquilina mi dice: “No, vai piuttosto al sesto piano e cerca
il signor Taldeitali: lui sicuramente saprà aiutarci”. Così salgo al sesto
piano pensando, nella mia ingenuità, che Taldeitali avesse una ferramenta,
fosse un fabbro o qualcosa del genere. Suono il campanello, mi apre un
vecchietto distinto. Gli spiego il problema, lui gentilmente mi dice di
aspettare e va a prendere i suoi attrezzi. Scende insieme a me chiacchierando
del più e del meno. Arriviamo al primo piano, saluta gli inquilini
“imprigionati” dietro le sbarre del cancelletto e si mette all’opera. Prende un
seghetto, una lima e una tronchese, zac
zac, meno di cinque minuti et voilà!
Ha tagliato una chiave a metà, l’ha limata un po’, due colpetti alla serratura
e il cancello si apre senza sforzo. Lo guardo ammirata, ma nessun altro, a
parte me, sembra stupito. Alla fine lui si accomiata raccomandandoci di
cambiare al più presto la serratura. Entriamo in casa e dico alla mia
coinquilina “Che bravo il signor Taldeitali! È del mestiere?” e lei mi risponde
con naturalezza “Sì, è uno scassinatore!”. Fantastico, mi dico ironicamente, lo
scassinatore gentiluomo. Anche quella volta, per un attimo, non sapevo se
essere indignata o divertita – e anche quella volta ho optato per la seconda.
So
che con questa storia avrò confermato almeno una dozzina di cliché sulla Sicilia: ma è stato solo un
episodio sporadico. Quello è stato l’unico scassinatore che
io abbia mai conosciuto a Palermo, lo giuro!
Nessun commento:
Posta un commento