sabato 27 maggio 2017

Le nozze di Figaro o le note della mia vita


È arrivato un nuovo dottorando nel nostro gruppo di ricerca. Un ragazzo dell’est, scuro di capelli e basso di statura, dall’aspetto serio, ma dalle risposte sarcastiche e i modi un po’ retrò. È arrivato, quindi, e io, con italico spirito di pronta accoglienza, lo invito a mangiare in mensa insieme. La conversazione fatica ad ingranare: sembra che non abbiamo molto in comune – nemmeno l’approccio alla filosofia, di cui entrambi ci occupiamo. Quando, a un certo punto, mi dice di essere un amante dell’opera. Quale gioia! Non solo riesco a intavolare una discussione, ma lui si dimostra un interlocutore spigliato e piacevole. A un certo punto mi chiede: “Qual è la tua opera preferita?”. Questa è una domanda che di solito non mi piace. Suona un po’ come: “Qual è il tuo piatto preferito?”, alla quale di solito rispondo banalmente “Tutto ciò che non contenga uvetta o cannella” (la cannella: il mio incubo stagionale nel periodo natalizio teutonico).
“Qual è la tua opera preferita?” – e mi sento rispondere senza esitazione Le nozze di Figaro.
Dopo qualche altro scambio di battute ci lasciamo e io mi metto a riflettere.
In effetti Le nozze di Figaro sono le note che mi hanno accompagnata ogni giorno in questi ultimi due anni. Non dimenticherò mai quando, nel 2015, mi sono trasferita, dalla Germania, in questa piccola città con una grande università, circondata dalle Alpi. Era settembre, ero un po’ ammalata e non sapevo che cosa mi aspettasse. Avevo paura di perdere quella sensazione calda di “sentirsi a casa” che avevo tanto faticato per raggiungere in Germania, paura di sentirmi di nuovo completamente straniera, sola in un paese di cui non conoscevo la lingua, avevo paura di non essere più abituata alla WG-Leben, ovvero alla vita da studenti in un appartamento condiviso, avevo qualche pregiudizio sugli svizzeri e sul loro modo di (non) rapportarsi con la gente e temevo che mi sarei sentita sola e in trappola, circondata da queste imponenti mura innevate.
Così, zaino in spalla e auricolari nelle orecchie, mi incamminavo a passo veloce lungo la strada principale, alla fine della quale mi aspettava la mia nuova casa, che non avevo ancora mai visto. Passai accanto alla pizzeria “San Marco” (in cui peraltro non ho mai mangiato, nonostante sia uno dei miei primi ricordi in questa parte della Svizzera). Ricordo esattamente che pensai che in ogni città del mondo, probabilmente, c’è una pizzeria chiamata “San Marco” (o “Bella Italia” o “Sole mio”), in cui probabilmente non lavorano nemmeno italiani. Sarei potuta essere ovunque.

Mi colpì il fatto che, sebbene fosse una bella giornata di sole e sebbene fosse quasi ora di pranzo, c’era pochissima gente sulla strada principale.

Mi colpì il fatto che tutti gli edifici intorno a me fossero grigiognoli, tanto che neppure il sole riusciva conferire alla città sembianze allegre: il grigio si mangiava il sole e inghiottiva tutte le case, le scuole, le chiese, i marciapiedi, le piazze, le insegne e i lampioni.

Continuavo a camminare e la strada mi sembrava interminabile, così mi abbandonai alla musica. Ascoltavo il finale del secondo atto delle Nozze e pensavo: “Comunque vada, qualsiasi cosa accada, Susanna farà scappare il paggio rinchiuso nel gabinetto e lei e Figaro riusciranno a imbrogliare il Conte”. Allora successe una cosa: più mi abbandonavo alla musica, più mi sembrava che la musica non solo si impossessasse di me, ma anche di tutta la città, spazzasse via il grigiore avvolgendo con un’aura magica tutto quello che, al primo sguardo, mi era sembrato scarno e banale.   




Così iniziò questa mia avventura in terra elvetica. Con il duetto Via, resti servita madama brillante percorrevo a passo svelto la grande e lunga strada fino all’università, sorridendo alla gente seria che ogni tanto (con mia sorpresa) smetteva di essere seria e ricambiava il sorriso; giunta davanti la porta dell’università, se nessuno guardava, aprivo con gesto plateale la porta automatica e il pubblico, nel mio lettore mp3, rispondeva con uno scroscio di applausi; di buon umore andavo su per le scale, entravo nel mio ufficio e davo inizio alla giornata tra Platone, parole battute sulla tastiera del mio computer e versi di Montale recitati a mente. Così trascorrevano le mie giornate e piano piano ho imparato ad amare questo posto: alcuni pregiudizi, è vero, ho dovuto confermarli, ma altri si sono rivelati dei semplici cliché. Dopo qualche mese la mia amica (svizzera tedesca) canticchiava cinque, dieci,venti, trenta, trentasei, quarantatré e nel nostro ufficio risuonavano le note di Mozart, Verdi ed Händel, quando i prof. non c’erano. Per montagne e per valloni, cantava Figaro mentre il mio bus si spingeva oltre le Alpi, durante il mio viaggio-Odissea per Milano, dove tenni una conferenza (Cherubino alla vittoria, alla gloria militar!). Quante lacrime, durate il primo inverno, ascoltando Dove sono i bei momenti?, sognando (e sperando) che il Conte si inginocchiasse anche davanti a me chiedendo perdono – ma non accadde. 

 Stare, in un giorno qualunque, sdraiati sul tappeto e ascoltare il finale e commuoversi. E la mia segreta passione per la voce da basso e l’interpretazione di Rod Gilfry (Mora, mora!).

 
 Ogni vittoria, sconfitta, paura, gioia sono state accompagnate dalle Nozze di Figaro, le note della mia vita. E adesso? Adesso il mio tempo qui sta giungendo a termine. Non so cosa mi aspetta nel futuro, non so da quale finestra potrò far tuffare e perdere il mio sguardo, non so quale idioma dovrò decifrare (imparare? amare?). Ci sarà ancora Figaro nella mia testa o saranno altre note a guidare i miei passi? Non lo so e, ve lo confesso, ho un po’ di paura. Ma è la curiosità a prevalere e sono pronta per affrontare, armata di musica, le sorprese a cui andrò incontro durante questa marcia.

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