È arrivato un
nuovo dottorando nel nostro gruppo di ricerca. Un ragazzo dell’est, scuro di
capelli e basso di statura, dall’aspetto serio, ma dalle risposte sarcastiche e
i modi un po’ retrò. È arrivato,
quindi, e io, con italico spirito di pronta accoglienza, lo invito a mangiare
in mensa insieme. La conversazione fatica ad ingranare: sembra che non abbiamo
molto in comune – nemmeno l’approccio alla filosofia, di cui entrambi ci
occupiamo. Quando, a un certo punto, mi dice di essere un amante dell’opera.
Quale gioia! Non solo riesco a intavolare una discussione, ma lui si dimostra
un interlocutore spigliato e piacevole. A un certo punto mi chiede: “Qual è la
tua opera preferita?”. Questa è una domanda che di solito non mi piace. Suona
un po’ come: “Qual è il tuo piatto preferito?”, alla quale di solito rispondo
banalmente “Tutto ciò che non contenga uvetta o cannella” (la cannella: il mio
incubo stagionale nel periodo natalizio teutonico).
“Qual è la tua
opera preferita?” – e mi sento rispondere senza esitazione Le nozze di Figaro.
Dopo qualche
altro scambio di battute ci lasciamo e io mi metto a riflettere.
In effetti Le nozze di Figaro sono le note che mi
hanno accompagnata ogni giorno in questi ultimi due anni. Non dimenticherò mai
quando, nel 2015, mi sono trasferita, dalla Germania, in questa piccola città
con una grande università, circondata dalle Alpi. Era settembre, ero un po’
ammalata e non sapevo che cosa mi aspettasse. Avevo paura di perdere quella
sensazione calda di “sentirsi a casa” che avevo tanto faticato per raggiungere
in Germania, paura di sentirmi di nuovo completamente straniera, sola in un
paese di cui non conoscevo la lingua, avevo paura di non essere più abituata
alla WG-Leben, ovvero alla vita da
studenti in un appartamento condiviso, avevo qualche pregiudizio sugli svizzeri
e sul loro modo di (non) rapportarsi con la gente e temevo che mi sarei sentita
sola e in trappola, circondata da queste imponenti mura innevate.
Così, zaino in
spalla e auricolari nelle orecchie, mi incamminavo a passo veloce lungo la
strada principale, alla fine della quale mi aspettava la mia nuova casa, che non
avevo ancora mai visto. Passai accanto alla pizzeria “San Marco” (in cui
peraltro non ho mai mangiato, nonostante sia uno dei miei primi ricordi in
questa parte della Svizzera). Ricordo esattamente che pensai che in ogni città
del mondo, probabilmente, c’è una pizzeria chiamata “San Marco” (o “Bella
Italia” o “Sole mio”), in cui probabilmente non lavorano nemmeno italiani.
Sarei potuta essere ovunque.
Mi colpì il fatto
che, sebbene fosse una bella giornata di sole e sebbene fosse quasi ora di
pranzo, c’era pochissima gente sulla strada principale.
Mi colpì il fatto
che tutti gli edifici intorno a me fossero grigiognoli, tanto che neppure il
sole riusciva conferire alla città sembianze allegre: il grigio si mangiava il
sole e inghiottiva tutte le case, le scuole, le chiese, i marciapiedi, le
piazze, le insegne e i lampioni.
Continuavo a
camminare e la strada mi sembrava interminabile, così mi abbandonai alla musica.
Ascoltavo il finale del secondo atto delle Nozze
e pensavo: “Comunque vada, qualsiasi cosa accada, Susanna farà scappare il
paggio rinchiuso nel gabinetto e lei e Figaro riusciranno a imbrogliare il
Conte”. Allora successe una cosa: più mi abbandonavo alla musica, più mi
sembrava che la musica non solo si impossessasse di me, ma anche di tutta la
città, spazzasse via il grigiore avvolgendo con un’aura magica tutto quello
che, al primo sguardo, mi era sembrato scarno e banale.
Così iniziò
questa mia avventura in terra elvetica. Con il duetto Via, resti servita madama brillante percorrevo a passo svelto la
grande e lunga strada fino all’università, sorridendo alla gente seria che ogni
tanto (con mia sorpresa) smetteva di essere seria e ricambiava il sorriso; giunta
davanti la porta dell’università, se nessuno guardava, aprivo con gesto
plateale la porta automatica e il pubblico, nel mio lettore mp3, rispondeva con
uno scroscio di applausi; di buon umore andavo su per le scale, entravo nel mio
ufficio e davo inizio alla giornata tra Platone, parole battute sulla tastiera
del mio computer e versi di Montale recitati a mente. Così trascorrevano le mie
giornate e piano piano ho imparato ad amare questo posto: alcuni pregiudizi, è
vero, ho dovuto confermarli, ma altri si sono rivelati dei semplici cliché. Dopo qualche mese la mia amica (svizzera
tedesca) canticchiava cinque, dieci,venti, trenta, trentasei, quarantatré e nel nostro ufficio risuonavano le
note di Mozart, Verdi ed Händel, quando i prof. non c’erano. Per montagne e per valloni, cantava
Figaro mentre il mio bus si spingeva oltre le Alpi, durante il mio
viaggio-Odissea per Milano, dove tenni una conferenza (Cherubino alla vittoria, alla gloria militar!). Quante lacrime,
durate il primo inverno, ascoltando Dove
sono i bei momenti?, sognando (e sperando) che il Conte si inginocchiasse anche
davanti a me chiedendo perdono – ma non accadde.
Stare, in un
giorno qualunque, sdraiati sul tappeto e ascoltare il finale e commuoversi. E
la mia segreta passione per la voce da basso e l’interpretazione di Rod Gilfry
(Mora, mora!).
Ogni vittoria, sconfitta, paura, gioia sono state
accompagnate dalle Nozze di Figaro,
le note della mia vita. E adesso? Adesso il mio tempo qui sta giungendo a
termine. Non so cosa mi aspetta nel futuro, non so da quale finestra potrò far
tuffare e perdere il mio sguardo, non so quale idioma dovrò decifrare
(imparare? amare?). Ci sarà ancora Figaro nella mia testa o saranno altre note a
guidare i miei passi? Non lo so e, ve lo confesso, ho un po’ di paura. Ma è la
curiosità a prevalere e sono pronta per affrontare, armata di musica, le
sorprese a cui andrò incontro durante questa marcia.
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